Da quando gli USA hanno imposto il ban di Huawei, l’attenzione mediatica del pubblico occidentale si è trasformata in un riflettore puntato contro l’azienda cinese. Da apparire agli occhi di tanti come un colosso inarrestabile della tecnologia, anche più di Apple e Samsung, in pochi anni è finita per diventare come un ricordo sbiadito nella mente del grande pubblico. Tracciare una cronistoria che aiuti a capire il perché siamo arrivati a questa situazione non è un compito facile. Innanzitutto perché parliamo di un’azienda fondata nel 1987: non tantissimi, ma sappiamo bene che 34 anni in ambito tecnologico possono risultare un’eternità. E poi perché Huawei è una delle aziende che più rappresenta la Cina, una nazione con cui gli Stati Uniti hanno rapporti altamente complessi e altalenanti da molti decenni.
In tal senso, trattare dei problemi di Huawei significa inevitabilmente parlare anche dello scontro fra USA e Cina; d’altronde, come leggerete più avanti, in questo scontro fanno compagnia a Huawei aziende come ZTE, DJI, SMIC, Hikvision e altre ancora. Oltre a essere uno scontro complesso, poi, quello fra USA e Cina passa anche attraverso i rispettivi paesi alleati. L’obiettivo con questo articolo è quello di darvi una panoramica quanto più completa possibile dei fatti accaduti dalla creazione di Huawei a oggi.
Ultimo aggiornamento: maggio 2024
Indice
Perché gli USA bloccano Huawei? Il grande timore dell’occidente
Ren Zhengfei: un uomo, tanti dubbi
Per parlare dello scontro fra USA e Huawei bisogna necessariamente partire da Ren Zhengfei, colui che nel 1987 decise di fondare la protagonista di questo racconto. Perché i dubbi che aleggiano attorno a Huawei iniziano ancor prima della sua nascita, ovvero nel 1974, quando un giovane e neolaureato in ingegneria civile Ren venne arruolato nell’esercito. Lui e altri laureati vennero incaricati della costruzione di una fabbrica tessile a causa della carenza di tessuti dell’epoca; venne poi congedato a causa della riduzione del corpo militare, e da lì in avanti ebbe inizio la sua carriera imprenditoriale.
Questo è quanto afferma Ren Zhengfei. Differente è la versione dei politici americani, che vedono in lui un individuo decisamente più connesso all’esercito cinese di quanto egli vorrebbe far passare. Un report della Camera americana individua in Ren un ex direttore del General Staff Department’s Information Engineering Academy, e sarebbe arrivato a coprire il ruolo di ufficiale di alto rango nell’intelligence dell’Esercito Popolare di Liberazione. Una posizione che lo avrebbe posto favorito nei confronti del governo cinese e del suo apparato militare, con riferimenti al cosiddetto Digital Triangle composto da aziende tech cinesi, istituti statali R&D ed esercito; al suo interno, compagnie come Huawei avrebbe aiuto la Cina nell’avanzamento militare in ambiti quali fibra ottica, radio, crittografia e tecnologie satellitari. Prenderebbe quindi corpo l’ipotesi per cui l’avanzamento di Huawei sarebbe stato facilitato dalla creazione di tecnologie a doppio uso, civile e militare.
Chi possiede veramente Huawei?
In più di un’occasione, in rete si è dibattito dell’effettiva proprietà di Huawei, in virtù del controllo che la Cina eserciterebbe sulle società nella nazione. Sul sito ufficiale, Huawei rimarca di essere un’azienda privata e indipendente, che non c’è alcun controllo governativo e che la proprietà è per l’1,14% di Ren Zhengfei e per il restante 98,86% di Employee Stock Ownership Program. Fondato sin dagli albori, questa holding rende ogni dipendente Huawei anche azionista nonché elettore di alcune parti della dirigenza. Questa dinamica ha sin da subito sollevato sospetti, essendo assente il controllo costante che avrebbe un’azienda pubblicamente quotata in borsa, dato che Huawei non lo é.
A tal proposito, nel 2019 è stato pubblicato un paper con vari dubbi sull’argomento, a partire dal fatto che la proprietà di cui sopra farebbe riferimento non a Huawei Technologies, cioè la divisione primaria dell’azienda che si occupa di realizzare prodotti e tecnologie, bensì a Huawei Investment & Holding. Si specifica che dal 2001 i dipendenti Huawei sarebbero sì azionisti ma sarebbero in possessori di azioni virtuali, da cui ottenere profitti ma nessun potere decisionale. Si fa poi presente che, allo stato attuale, Huawei Investment & Holding sarebbe l’unica azionista di Huawei Technologies e Ren Zhengfei l’unico azionista umano del gruppo Huawei, dandogli così potere sul consiglio di amministrazione.
A rendere tutto più complicato è il fatto che non ci sarebbero documenti pubblici su Huawei Investment & Holding, non potendo così capire ufficialmente il suo ruolo nella proprietà aziendale. Qualora si trattasse effettivamente di un’organizzazione sindacale, per le leggi cinesi i suoi dirigenti possono essere nominati soltanto dalle sfere superiori, rimarcando l’assenza di potere dei dipendenti. Ed essendo che i sindacati cinesi sono legalmente connessi all’ACFTU (All-China Federation of Trade Unions), cioè al centro sindacale nazionale del Partito, Huawei Investment & Holding sarebbe a tutti gli effetti controllata dallo stato.
L’importanza di Huawei per la Cina
La storia di Huawei inizia ufficialmente il 15 settembre 1987, quando Ren Zhengfei decide di fondare la sua compagnia ed entrare nel mercato delle telecomunicazioni. Il suo modello di business partì come importatore di componenti telefonici, perlopiù switch PBX, da Hong Kong e rivenditore per la Cina; su questi switch venne fatta ingegneria inversa arrivando nel 1993 a realizzare il C&C08, lo switch telefonico più potente all’epoca in Cina. Un traguardo che attirò le attenzioni del governo: assieme a quella che avremmo conosciuto come ZTE, partecipò alla costruzione dell’infrastruttura telefonica nazionale e militare della Cina.
Ren Zhengfei afferma che il capitale iniziale di Huawei ammontasse a circa 5.000$, ma un report del Wall Street Journal riporta che, negli anni, l’azienda abbia ricevuto prestiti e sovvenzioni statali per qualcosa come 75 miliardi di dollari, con interessi estraneamente bassi se non assenti da parte di istituti quali China Development Bank e soprattutto Export-Import Bank of China. Huawei ha negato di aver ricevuto tali finanziamenti, ma i legami con il governo iniziarono a diventare sempre più evidenti: nel 1996, la Cina dette via a politiche di sostegno ai produttori nazionali nelle telecomunicazioni, cioè Huawei e ZTE, tagliando fuori i concorrenti stranieri; politiche che attirarono le critiche della comunità internazionale, che accusarono la Cina di aver favorito l’ingresso delle aziende estere solo per poterle copiare ed estrometterle alla prima occasione.
Nel 1998, Huawei avrebbe ottenuto prestiti statali per oltre 500 milioni di dollari, cioè il 45% delle spese di quell’anno; come affermò Zhengfei, “fummo ingenui a scegliere le telecomunicazioni come business di partenza, non eravamo preparati per una concorrenza così forte, con aziende rivali all’estero che valevano miliardi: se non ci fosse stato il governo, non esisteremmo più“.
Sempre verso la fine degli anni ’90, Huawei avrebbe creato joint venture con le società telecomunicative statali con cui lavorava, fra cui quelle dei governi di Shanghai, Sichuan, Chengdu, Shenyang e Anhui, creando società di comodo a cui trasferire denaro e ottenere trattamenti preferenziali per l’acquisto dei suoi prodotti.
Nonostante tutte queste agevolazioni, Huawei venne comunque accusata di evasione delle tasse a causa della cattiva situazione economica in cui versava, venendo salvata dall’intervento del governo di allora. Inoltre, in un’intervista del 2019, l’ex segretario del governo di Shenzhen Li Youwei dichiara di aver suggerito a Hui Xiaobing, ex presidente della Shenzhen Construction Bank, di attenzionare una nascente Huawei, a cui sarebbero stati prestati oltre 4 milioni di dollari e l’appoggio da parte del Ministero per la Scienza e la Tecnologia.
Negli scorsi anni, Huawei ha risposto alle varie accuse di essere sostenuta economicamente dal governo cinese. Secondo i dati riportati dall’azienda, fra 2009 e 2018 le sovvenzioni ricevute ammontano solo allo 0,3% delle vendite totali di Huawei (pari a 514 miliardi) e riguardano quasi esclusivamente incentivi per ricerca e sviluppo.
Rapporti ambigui con il mondo
È l’11 dicembre 2001 quando la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, aprendo l’intera nazione al mercato globale e non limitandosi unicamente a farlo nelle Zone Economiche Speciali. Questa mossa spianò la strada all’espansione internazionale di realtà cinesi come Huawei, ma riaccese le già esistenti preoccupazioni degli Stati Uniti sulle azioni del governo cinese per favorire slealmente le proprie compagnie; fra queste azioni sospette, ci sarebbero anche numerose collaborazioni con nazioni soggette a sanzioni o comunque in cattivi rapporti con l’occidente.
Già nel 2001, Huawei venne accusata di aver aiutato il gruppo talebano in Afghanistan, fornendo loro apparecchiature per la sorveglianza delle comunicazioni. Successivamente, le autorità indiane hanno scagionato Huawei per mancanza di prove.
Nel 2003, Huawei venne accusata di aver violato le sanzioni contro l’Iraq, negli anni in cui vigeva il regime di Saddam Hussein. L’azienda avrebbe fornito al paese dispositivi per l’esercito iracheno, fra cui un radar in grado di intercettare aerei bombardieri stealth. Huawei conferma di aver avviato dei progetti in Iraq nel 1999, ma di averli abbandonati.
Nel 2006, da alcuni documenti fatti trapelare da WikiLeaks si evince che Huawei avrebbe attuato pratiche sleali in Kenya; l’allora CEO dell’operatore keniota Safaricom avrebbe accusato Huawei di scarsa assistenza e di non aver fornito tutte le attrezzature stabilite da contratto, finendo però per essere messo sotto pressione dal governo per ripristinare i rapporti con Huawei. Inoltre, l’operatore Telkom Kenya avrebbe dato a Huawei il contratto per la rete CDMA senza una regolare gara d’appalto; così come il CEO di Safaricom, anche quello di Telkom Kenya sarebbe stato tacciato dopo le critiche all’assistenza dell’azienda cinese.
Nel 2007, un rapporto del U.S. Army Strategic Studies Institute mostra come Huawei (e ZTE) avrebbe attuato pratiche commerciali sleali per ottenere clienti in Argentina. Si parla di come l’azienda “intrappolasse i clienti“, offrendo viaggi pagati in Cina e doni economici per poi attuare strategie di estorsione. Oppure di come clienti come l’operatore argentino ANTEL sarebbero caduti nella “trappola di Huawei“: dopo aver prestato loro attrezzatura, li avrebbe obbligati a pagarla allo scadere della prova
Nel 2009, il governo cinese avrebbe aiutato Huawei a concludere l’accordo per un sistema di sorveglianza a Islamabad, offrendo al governo del Pakistan prestiti per oltre 124 milioni di dollari. Questi sarebbero stati forniti dalla Export-Import Bank of China, che avrebbe rinunciato alla maggior parte degli interessi a patto che il Pakistan desse l’incarico direttamente a Huawei saltando la tradizionale fase di appalto. Di tutte le nazioni con cui collabora, il Pakistan è quello che ha firmato più accordi per la costruzione di sistemi di sorveglianza Huawei. Nell’agosto 2021, Huawei è stata accusata di aver installato una backdoor nel sistema di sorveglianza di Lahore, con cui avere accesso a informazioni sensibili su cittadini e politici.
Fra 2015 e 2016, Cina e Russia avrebbero collaborato per la creazione di una versione russa del Great Firewall cinese; un progetto a cui avrebbe lavorato anche Huawei, fornendo server e sistemi di archiviazione dati a Bulat, produttore russo di apparecchiature per le telecomunicazioni. Alcuni dipendenti Huawei avrebbero anche presenziato alle conferenze per il controllo della sicurezza informatica in Russia.
Un report del Washington Post del luglio 2019 afferma che Huawei avrebbe segretamente aiutato per almeno 8 anni la Corea del Nord nello sviluppo della sua rete 3G in collaborazione con l’azienda cinese Panda International, violando sanzioni e controlli sulle esportazioni di tecnologie statunitensi. Huawei avrebbe anche partecipato allo sviluppo del sistema di crittografia che l’operatore Koryolink mette a disposizione del governo per monitorare le conversazioni della popolazione.
Nel 2018, i media americani hanno reso pubblica l’esistenza di rapporti commerciali fra Huawei e l’Iran. La compagnia avrebbe utilizzato Skycom, venditore di apparecchiature per le telecomunicazioni di sua proprietà, per aggirare le sanzioni americane dal 2007 al 2014 e vendere agli operatori telefonici dell’Iran prodotti sotto embargo. Huawei dichiara di aver ceduto Skycom nel 2007, ma le indagini parlano di legami fino al 2013. Nel dicembre 2018, la figlia del fondatore nonché CFO Meng Wanzhou venne arrestata in Canada per aver nascosto il legame Huawei/Skycom e per frode bancaria ai danni di HSBC. Il processo si è concluso nel settembre 2021, quando Meng si è dichiarata colpevole in cambio di far cadere l’accusa di frode e il pagamento della multa, potendo così tornare in Cina. Già nel 2011, Huawei venne accusata di collaborare con l’opera di censura, intercettazione e persecuzione in Iran; dopo che Ericsson, Nokia e Siemens si ritirarono dalla nazione a cause delle pressioni delle autorità, Huawei subentrò fornendo le apparecchiature al loro posto.
Nel 2019, un report di Reuters svela i rapporti di Huawei con la Siria, che avrebbe utilizzato una società di facciata con sede nell’isola di Mauritius per poter operare nonostante le sanzioni.
l problema degli uiguri in Cina
Da qualche anno, si è riaccesa la discussione attorno alla persecuzione etnica della Cina verso gli uiguri nella regione dello Xinjiang. Varie inchieste hanno portato alla luce come il governo avrebbe incarcerato milioni di musulmani per “rieducare potenziali terroristi“, attuando quella che viene definita “pulizia etnica” o “genocidio“. Un problema in cui sarebbero coinvolte aziende cinesi come DJI e, appunto, Huawei.
Nel 2018, la compagnia avrebbe installato impianti di sorveglianza muniti di riconoscimento facciale AI per individuare persone sospette e avvertire la polizia. Huawei ha confermato l’esistenza del sistema, affermando però che fosse solamente in test e non un prodotto reale e commercializzato.
Huawei avrebbe anche partecipato alla realizzazione dei centri di “rieducazione”, fornendo videocamere, porte intelligenti, software gestionali per orari dei detenuti, turni dei guardiani e corsi di “rieducazione culturale, tecnica e ideologica”; avrebbe lavorato con iFlytek per la creazione di un sistema di identificazione vocale per identificare linguaggi sospetti; avrebbe realizzato con PCI-Suntek un sistema per rintracciare criminali e politici di interesse utilizzando scansione facciale e tracciamento di rete. Interrogato nel 2018 dal parlamento britannico, John Suffolk di Huawei affermò: “Il nostro giudizio è: ‘È legale all’interno dei paesi in cui operiamo?’. Questo è il nostro criterio.“
Nel giugno 2020, il governo USA ha imposto restrizioni per l’ottenimento di visti VISA nei confronti dei dipendenti di Huawei, accusata di connivenza con la Cina nella violazione dei diritti umani ai danni degli uiguri.
Accuse di furto di proprietà intellettuale
Nel febbraio 2003, Cisco fece causa a Huawei per la violazione di brevetti su router e switch di rete, compresi codici sorgente, interfacce e altro ancora; fra le prove ci sono anche errori di battitura presenti sia nei manuali Cisco che Huawei, tutte prove successivamente rimosse da Huawei. La causa è stata vinta da Cisco.
Nel giugno 2004, un dipendente Huawei venne beccato mentre scattava di nascosto delle foto all’attrezzatura di alcune compagnie, fra cui Fujitsu, alla fiera Supercomm; questa persona aveva con sé anche dei diagrammi disegnati a mano raffiguranti attrezzature analizzate agli stand di queste compagnie. Dopo aver negato le accuse, Huawei ha licenziato il dipendente.
Nel luglio 2010, Motorola citò in giudizio Huawei per aver ottenuto informazioni riservate sulle sue apparecchiature di rete. L’ex ingegnere senior Shaowei Pan avrebbe segretamente collaborato con Huawei, inviandole documentazioni top secret; sarebbero state create e vendute apparecchiature basate su quei documenti da parte di Huawei e del partner Lemko, fondato da Pan e con dipendenti ancora fra le fila di Motorola e quindi con accesso ai documenti interni della compagnia. Huawei ha successivamente accusato Motorola di aver trasferito segreti commerciali di Huawei verso Nokia Siemens Networks. Huawei e Motorola hanno raggiunto un accordo extragiudiziario per concludere la causa. Lo scontro fra le due andò avanti anche nel 2013: Michael Hayden, allora direttore di Motorola Solutions ed ex capo della CIA, accusò Huawei dell’installazione di backdoor nelle sue apparecchiature e di condividere le informazioni ottenute col governo cinese.
Nel settembre 2014, l’operatore statunitense T-Mobile accusò Huawei di essere entrata illegalmente nei suoi laboratori e averle sottratto fra 2012 e 2013 parti del robot Tappy, utilizzato per testare gli smartphone; da queste componenti Huawei ha copiato sistema operativo e dettagli di progettazione per realizzare un proprio robot. La causa è stata vinta da T-Mobile.
Nel febbraio 2019, Akhan Semiconductor accusò Huawei del furto di proprietà intellettuale sulla sua tecnologia Miraj Diamond Glass. Akhan avrebbe inviato un sample del suo vetro protettivo a Huawei per testarlo e valutarne un’eventuale acquisto; tuttavia, Huawei avrebbe rotto il sample per rimuoverne dei campioni da inviare in Cina per fare ingegneria inversa.
Nel marzo 2019, Imaginew accusa Huawei di furto di proprietà intellettuale; l’azienda avrebbe incontrato il CEO nel 2014 per la presentazione di una fotocamera a 360° per smartphone in attesa di brevetto, per poi interrompere i contatti e riproporre quella stessa idea nel 2017 sotto forma di Huawei EnVizion 360 Camera.
Nel maggio 2019, CNEX Labs ha accusato Huawei di averle sottratto segreti industriali; nello specifico, l’allora vice presidente Eric Xu avrebbe organizzato una cospirazione pluriennale, con l’aiuto di ingegneri e università cinesi, per sottrarle una tecnologia di archiviazione SSD e fornirla a HiSilicon, la divisione chip di Huawei.
Sempre nel 2019, Chanel si rivolse all’ente europeo EUIPO, accusando Huawei di aver violato il brevetto sul suo logo, perdendo però la causa.
Nel settembre 2021, la divisione Interactive Entertainment (quella che si occupa di PlayStation) di Sony accusò Huawei di aver violato la sua proprietà intellettuale con il lancio del Huawei Watch GT. Lo smartwatch violerebbe i brevetti del gioco Gran Turismo, solitamente abbreviato in GT. A oggi, però, nessun tribunale ha dato ragione a Sony.
Il caso Nortel / Huawei
Di tutte le vicende sulle presunte pratiche sleali di Huawei, quella contro Nortel è forse la più grave. Fondato nel 1895, Nortel era il principale produttore di apparecchiature telecomunicative del Canada nonché una delle compagnie più grandi della nazione. Nonostante fosse un colosso del mercato tecnologico, nel 2009 ha dichiarato bancarotta e ha chiuso i battenti. I motivi di questo fallimento sono molteplici e sono perlopiù dovuti a Nortel stessa e alla crisi della bolla dot.com; tuttavia, nel 2012 si scopre che per oltre 10 anni hacker cinesi hanno installato software di spionaggio con cui avere accesso totale ai dati di Nortel: documenti privati, piani di sviluppo, mail aziendali e così via. Anche se l’azienda ne era venuta a conoscenza, e già da anni fosse sta messa in allerta dall’intelligence canadese, si mise in liquidazione senza aver risolto il problema.
In tutto ciò, cosa c’entra Huawei? In alcuni report si evidenziano legami sospetti fra la tempistica del crollo di Nortel e l’ascesa di Huawei, che proprio in quegli anni si affacciava sui mercati internazionali. In ballo ci sono accuse di aver effettuato ingegneria inversa sui prodotti Nortel nel 2000, fra cui una scheda in fibra usata nei suoi switch dati, comprata tramite un’azienda di comodo e restituita con segni di disassemblaggio; si fa notare che, in quel periodo, Huawei aveva iniziato a vendere in Asia prodotti molto simili a quelli di Nortel. Sarà poi nel 2004 che inizieranno i suddetti problemi di hacking, con 7 account di alti dirigenti violati per accedere a documenti su proprietà intellettuali dell’azienda canadese. A oggi, però, non esistono né prove né accuse ufficiali contro Huawei.
Pratiche sleali nel mondo degli smartphone
Era il 2013 quando Karel De Gucht, commissario dell’Unione Europea per il Commercio, accusava Huawei e ZTE di fare attività di dumping, cioè la vendita di prodotti a costi anti-concorrenziali per danneggiare e conquistare il mercato europeo. Huawei ha negato l’infrazione delle leggi europee, affermando di “agire sempre in modo equo e ottenere fiducia dai clienti attraverso tecnologia e qualità, piuttosto che prezzi o sussidi“.
Un’inchiesta del 2015 dell’azienda tedesca di cyber-sicurezza G Data Software ha rivelato che gli smartphone di alcuni produttori, fra cui Huawei, sarebbero stati spediti con malware; questo virus avrebbe permesso di inviare SMS, registrare chiamate e accedere ai dati in memoria all’insapute dell’utente. Tuttavia, le aziende accusate hanno dichiarato che l’installazione del malware fosse stata effettuata da terze parti, presumibilmente da parte di rivenditori esterni.
Forse alcuni di voi si ricorderanno che nel 2018 Huawei fece parlare di sé in negativo per aver falsato i benchmark su smartphone come P20, P20 Pro, Nova 3 e Honor Play (cosa già accaduta anni prima, fra l’altro). Nel software di questi telefoni era implementata una modalità nascosta che, quando rilevava l’avvio di un benchmark, faceva girare a piena potenza l’hardware. In seguito al ban da parte di alcune piattaforme di benchmarking, Huawei decise di rendere di pubblico accesso questa modalità, permettendo di attivarla o meno.
Non solo benchmark: in più occasioni (1, 2, 3), Huawei è stata pizzicata nello spacciare foto scattate con DSRL professionali come fossero immagini scattate da smartphone. L’azienda si è scusata pubblicamente, affermando che avessero semplicemente un intento promozionale e non volessero riflettere il reale comportamento degli smartphone. Ci sono state anche polemiche attorno alla modalità Luna della fotocamera Huawei, dove verrebbero usate foto pre-caricate della Luna per dare l’illusione che la fotocamera sia riuscita a immortalarla in maniera molto nitida.
USA contro Huawei: problemi di sicurezza o di mercato?
A partire dal 2003, l’azienda statunitense 3Com ha creato con Huawei la joint venture H3C Technology per portare i prodotti di rete 3Com anche in Cina. Tuttavia, nel 2006 il presidente R Scott Murray si dimise per via delle preoccupazioni nate fra le autorità americane sul rischio per la sicurezza informatica rappresentato da Huawei. Da qui la scelta, nel 2008, di interrompere l’accordo di vendita per 2,2 miliardi di 3Com a Bain Capital, dato che quest’ultimo aveva Huawei fra gli azionisti.
Una cosa similare è avvenuta nel 2011, quando Huawei dovette rinunciare all’acquisizione di 3Leaf Systems, compagnia americana nel settore dei server, dopo il veto posto dal governo a stelle e strisce. Oppure nel 2013, quando per la fusione fra l’operatore americano Sprint e la multinazionale nipponica SoftBank le parti decisero di non usare attrezzature Huawei, ritenute passibili di attacchi cyber-informatici.
Nonostante si guardi alla storia più recente quando si parla di USA vs Huawei, in realtà già con la presidenza Bush Jr. gli Stati Uniti iniziarono a concretizzare le preoccupazioni contro l’azienda di Ren Zhengfei. All’interno del caso Edward Snowden, si scoprì che nel 2007 gli USA avrebbero avviato un programma segreto contro Huawei; l’agenzia NSA avrebbe persino bucato la rete del quartier generale Huawei e del patron Ren Zhengfei. Durante il 2011, il governo americano invocò i poteri sulla sicurezza nazionale dei tempi della Guerra Fredda per obbligare operatori come Verizon e AT&T a divulgare informazioni private in merito alle indagini sul cyber-spionaggio cinese. Il risultato è che, nell’ottobre 2012, l’House Intelligence Committee pubblica un rapporto che indica Huawei e ZTE come “minacce alla sicurezza americana“, pur non fornendo prove concrete in merito.
Negli anni a venire, la situazione non si placherà affatto, costringendo Huawei a rimanere fuori dal suolo statunitense. Nel gennaio 2018, Verizon abbandonò i piani di commercializzazione dei suoi smartphone: l’operatore telefonico sarebbe dovuto essere il principale vettore per la (mai avvenuta) espansione di Huawei nel mercato telefonico americano, con Mate 10 Pro come primo modello di prova. Lo stesso fece Best Buy, una delle principali catene d’elettronica americana, che confermò l’interruzione della vendita dei prodotti Huawei. Nonostante l’ostracizzazione del brand, nel 2018 Huawei riuscì per la prima volta a superare Apple diventando il secondo produttore per vendite nel mondo; risultato che venne poi superato nel 2020, superando Samsung per raggiungere la vetta del mercato.
Accuse di spionaggio e di scarsa sicurezza
Anche se molti conoscono Huawei come un’azienda dedicata all’elettronica consumer, smartphone in primis, la compagnia di Ren Zhengfei deve molta della sua fortuna alla vendita di infrastrutture telecomunicative, apparecchiature di rete e di sistemi di videosorveglianza. E visti i suoi presunti legami con le autorità della Cina, da diversi anni le indagini dell’occidente puntano a fare chiarezza in tal senso; oltre ai suddetti legami sospetti, infatti, Huawei è stata in più occasioni accusata di aver effettuato spionaggio e/o di aver creato sistemi che lo permettessero.
Nel 2010, Huawei avrebbe monitorato le chiamate dell’operatore KPN in Olanda. Nel rapporto di De Volkskrant, sarebbe stata in grado di spiare 6,5 milioni di utenze telefoniche, comprese l’allora primo ministro, dissidenti cinesi e utenti sotto intercettazione dalle autorità. Huawei ha dichiarato che la responsabilità dell’accaduto fosse di sei dipendenti sotto responsabilità di KPN, che avrebbero ottenuto accesso non autorizzato ai dati. Lo stesso KPN ha affermato di non aver subito violazioni da parte di aziende esterne.
Nel 2010, il Regno Unito fece creare il Huawei Cyber Security Evaluation Center per consentire alle autorità di analizzare le pratiche di sicurezza di Huawei. In vista del debutto del 5G, il risultato non è stato dei migliori: nel 2019, un rapporto del centro di cyber-sicurezza britannica afferma che non c’è stato “nessun progresso” dopo le promesse di Huawei di migliorare le pratiche di sicurezza. Oltre ad affermare che rappresenta “un rischio significativamente maggiore per gli operatori del Regno Unito“, si parla di “ulteriori problemi tecnici significativi nelle pratiche ingegneristiche di Huawei“.
Passiamo poi al luglio 2012, quando i ricercatori Felix Lindner e Gregor Kopf svelano l’esistenza di vulnerabilità nei router Huawei, che potevano essere sfruttate per prenderne il controllo. In merito, Felix affermò che la sicurezza dei terminali Huawei fosse “la peggiore in assoluto” e la più vulnerabile fra tutte le aziende testate negli anni, oltre all’assenza di un metodo per informare l’azienda su queste falle di sicurezza.
Nel 2014, il Sudan accusò Huawei di aver violato le mail governative e contraffatto documenti per ricevere finanziamenti dalla Export-Import Bank of China con cui finanziare il progetto Digital Migration TV, ideato per aiutare il Sudan a migrare da sistemi analogici a digitali.
Dopo la costruzione dei sistemi informatici della sede dell’Unione Africana in Etiopia, nel gennaio 2018 Huawei viene accusata di aver contribuito all’installazione di un sistema che avrebbe archiviato il trasferimento di dati su server ignoti a Shanghai; una violazione che, secondo gli addetti ai lavori, rimase inosservata per 5 anni consecutivi (dal 2012 al 2017). Inoltre, il sistema fornito da Huawei avrebbe permesso ad hacker cinesi di ottenere i filmati dalle telecamere di sicurezza negli edifici dell’Unione Africana.
Alcuni dipendenti di Huawei Africa vengono accusati nell’agosto 2019 di aver aiutato i governi in Uganda e Zambia a spiare gli avversari politici, fra intercettazioni di telefonate, spionaggio su social e tracciamento della posizione. La dirigenza Huawei avrebbe anche spinto affinché il governo ugandese acquistasse il suo sistema di video-sorveglianza e monitoraggio di massa installato in Algeria, con cui sostenere ulteriormente lo spionaggio degli oppositori.
Dopo anni di perplessità, preoccupazioni e sospetti, nell’agosto 2018 gli Stati Uniti firmarono il National Defense Authorization Act per vietare l’acquisto di prodotti e servizi Huawei e ZTE per settori “essenziali e critici” del governo americano e dei suoi collaboratori. Una vicenda che nel marzo 2019 si intensifica, quando nel dibattito pubblico si discute di due leggi cinesi reputate controverse: secondo le leggi 2014 Counter-Espionage Law e 2017 National Intelligence Law, “qualsiasi organizzazione deve collaborare con l’intelligence del governo” e “quando lo stato indaga su casi di spionaggio, le organizzazioni non possono rifiutarsi di fornire le prove richieste“.
Quando interrogata sulla vicenda, Huawei rispose che “non costruirà backdoor né consegnerà i dati dei clienti“, che “non gli è mai stato richiesto di farlo” e che “non partecipa mai allo spionaggio: anche se ci fosse richiesto dalla legge cinese, lo rifiuteremmo fermamente“. Tuttavia, esperti internazionali come Jerome Cohen, professore di diritto alla Università di New York, affermano che “Huawei non abbia modo di resistere agli ordini del governo cinese, dovendo consegnare tutti i dati richiesti ed eseguire qualsiasi attività di sorveglianza richiesta“; ha poi aggiunto: “opporsi a una seria richiesta del Partito richiede un coraggio che rasenta l’incoscienza: cosa fai quando il tuo avversario è la polizia, i media, la magistratura e il governo messi assieme?”
In occasione del Congresso Nazionale del Popolo Cinese del marzo 2019, il portavoce Zhang Yesui ha risposto che “la legge nazionale cinese stabilisce che il lavoro di intelligence sia condotto secondo le leggi e nel rispetto di diritti umani e legali di individui e organizzazioni“. Ha proseguito sottolineando che “queste preoccupazioni sono un’ingerenza nelle attività economiche con mezzi politici, contro le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, sconvolgendo l’ordine del mercato internazionale basato sulla concorrenza leale“. Allo stesso tempo, quando si parla di concorrenza leale si fa sempre presente come la Cina blocchi da decenni molti siti e aziende tramite il suo Great Firewall.
Nell’autunno 2019, lo sviluppatore John Wu ha portato alla luce i legami ambigui fra Huawei e LZPlay, app che veniva utilizzata per aggirare il ban americano (di cui vi parlo nel paragrafo successivo); sfruttando delle librerie API di Huawei in maniera anomala, l’app riusciva a installare le app Google come fossero app di sistema, una procedura normalmente concessa solamente alle app firmate da Huawei.
Huawei viene ufficialmente bannata dagli USA
Il 15 maggio 2019 Huawei viene ufficialmente inserita nella Entity List assieme ad altre 70 aziende cinesi. Questo la rende impossibilità a collaborare commercialmente con tutte quelle aziende che vendono tecnologie statunitensi, in particolare Google, Qualcomm, TSMC, Intel, AMD, Microsoft, Samsung, Sony e così via. Il risultato è a dir poco impattante, a partire dal mondo degli smartphone; lato software, i dispositivi Huawei non possono più avere i servizi Google, perciò niente Play Store, niente app Google e niente certificazione per poter usare app come Netflix e quelle bancarie; lato hardware, non potendo più farsi stampare i chip HiSilicon da TSMC e non potendo comprare quelli di Qualcomm si trova costretta a usare le scorte nei magazzini; senza contare le forniture di compagnie come Samsung e Sony, fra i principali fornitori per schermi, fotocamere e memorie.
Dopo pochi giorni dal ban, Microsoft decide di bloccare la vendita dei notebook Huawei dal suo store online (blocco poi revocato). A causa del ban americano, nel giugno 2019 Huawei vende Marine Networks, la sua divisione per la posa di cavi sottomarini per l’infrastruttura internettiana nel mondo. Sempre a giugno, Meta decide di bloccare la pre-installazione delle sue app Facebook, Messenger, WhatsApp e Instagram a bordo di smartphone e tablet Huawei.
Arriviamo al giugno 2020, quando il Dipartimento della Difesa americano pubblicò un report per il National Defense Authorization Act in cui 20 aziende cinesi, fra cui Huawei, vennero per la prima volta pubblicamente indicate come connesse all’esercito cinese; con questo rapporto, il presidente statunitense può applicare l’International Emergency Economic Powers Act e tagliar fuori le aziende bannate dal sistema finanziario americano. Ordine esecutivo che venne ampliato nel giugno 2021, quando il governo Biden vietò investimenti americani nei confronti di varie aziende cinesi, Huawei compresa.
Fortunatamente per Huawei, nel novembre 2020 arrivò una notizia buona, seguita da una cattiva: il governo americano concesse a Qualcomm la licenza per tornare a vendere a Huawei per smartphone e tablet, ma soltanto SoC 4G perciò privi di modem 5G. Inoltre, nel dicembre 2020 il Dipartimento del Commercio inserì nella Entity List più di 60 altre aziende cinesi, fra cui DJI e soprattutto SMIC; quest’ultimo è il principale chipmaker cinese, cruciale per il mercato interno dei semiconduttori e che si supponeva potesse essere un alleato strategico per Huawei per sostituire TSMC. Blocco che potrebbe ripercuotersi anche contro PXW, chipmaker fondato con l’aiuto di Huawei che starebbe provando a sostituire parte della filiera esterna alla Cina.
Nel frattempo, un’altra brutta tegola si abbatté su Huawei, che nel novembre 2020 ufficializzò la cessione di Honor a una cordata di investitori e aziende cinesi. Quello che una volta era il suo sub-brand diventò così una compagnia indipendente, ma gli Stati Uniti non ci stavano e nell’ottobre 2021 valutarono se inserire nella Entity List anche Honor. Secondo i repubblicani, Honor sarebbe anch’esso un braccio del governo cinese e non dovrebbe avere accesso a quelle tecnologie di stampo americano proibite a Huawei. Proseguirono le cessioni, visto che nel novembre 2021 si vociferò che Huawei avrebbe venduto la divisione server X86, non avendo modo di ottenere i necessari chip fabbricati da Intel; la società andrebbe in mano a un consorzio cinese non ben identificato.
Per estromettere Huawei dalle reti europee, nel settembre 2021 gli Stati Uniti introdussero il Transatlantic Telecommunication Security Act, un disegno di legge per offrire investimenti a chi utilizzi attrezzature di rete “inclusivi, trasparenti, economicamente sostenibili e conformi al diritto internazionale“.
Un nuovo ordine esecutivo arrivò nel novembre 2011, quando gli USA firmarono il Secure Equipment Act per impedire a Huawei e ZTE di ottenere nuove licenze per operare sul mercato delle infrastrutture nelle telecomunicazioni; inoltre, l’ente FCC ebbe così modo di revocare le autorizzazioni concesse negli anni precedenti.
Dopo Qualcomm, a fine 2021 anche altre aziende ottennero le licenze necessarie per tornare a commerciare con Huawei, fra cui Intel, AMD, Samsung, Sony e OmniVision. Tuttavia, nel settembre 2022 gli USA puntarono il dito contro Yangtze, fornitore delle memorie degli smartphone Huawei ma che violerebbe i limiti del ban USA. Sempre a settembre 2022, da parte degli Stati Uniti arrivò un’apertura verso Huawei, con la volontà di alleggerire il ban per “tecnologie di basso livello” e consentirle di partecipare alla creazione di standard tecnologici.
Nell’aprile 2023, gli USA condannano Seagate di aver violato le limitazioni del ban USA; il noto produttore statunitense di memorie avrebbe fornito hard disk a Huawei nonostante il divieto derivante dalla Entity List.
Nel maggio 2024, il governo degli Stati Uniti è tornato sui suoi passi, revocando le licenze concesse a Intel e Qualcomm e impedendo ai due chipmaker di vendere microchip a Huawei.
Huawei, una minaccia per il 5G nel mondo
Ancor prima del 5G, in seguito al rapporto statunitense del 2012, alleati nazionali come Canada e Australia iniziarono a escludere Huawei dalla realizzazione delle proprie infrastrutture di rete. Ma il vero blocco prese vita a partire dall’estate 2018, quando sempre l’Australia istituì ufficialmente il ban per Huawei e ZTE dalla costruzione della sua rete nazionale 5G. Alla nazione australiana se ne aggiunsero diverse altre negli anni successivi, chi con ban veri e propri, chi preferendo Nokia ed Ericsson. Ecco quali sono i paesi che hanno imposto questi blocchi: Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Danimarca, Filippine, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Groenlandia, India, Italia, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Singapore, Spagna, Sud Corea, Svezia, Taiwan, Thailandia e Vietnam.
In occasione del MWC 2019, il presidente Guo Ping respinse pubblicamente le accuse verso Huawei di rappresentare un rischio per la sicurezza per il 5G, specificando che gli USA non hanno prove che i suoi prodotti non siano sicuri e rimarcando l’ipocrisia in merito al caso Snowden/NSA e al fatto che “lo US Cloud Act consenta alle loro entità governative di accedere ai dati fuori dai confini“. Ping ha poi esortato i governi mondiali a creare standard di sicurezza unificati (prendendo spunto dal modello europeo NESAS) per mettere in atto una regolamentazione unica per tutti.
Nel 2019 venne portato avanti dagli USA il programma per eliminare Huawei dalle proprie reti: nel mese di maggio, il Senato statunitense in collaborazione con l’ente FCC presentò un disegno di legge con cui investire quasi 2 miliardi di dollari per la rimozione delle apparecchiature Huawei che gli operatori americani hanno installato negli anni precedenti.
HarmonyOS è una minaccia per la sicurezza?
Sin da quando Huawei è stata ufficialmente bannata dagli USA, Google ha affermato che ciò comportasse un rischio per la sicurezza degli utenti; spingere Huawei a creare un’alternativa ad Android significherebbe farle creare un sistema operativo meno controllato e più vulnerabile. Questo “sistema operativo” è poi diventato HarmonyOS: uso le virgolette perché, nonostante l’azienda ne abbia parlato come un OS proprietario, le indagini condotte dagli addetti ai lavori hanno svelato che altro non è che una versione personalizzata di Android.
Nel settembre 2021, le autorità lituane accusarono Huawei di compromettere la sicurezza dei suoi clienti, dato che i suoi smartphone con AppGallery hanno accesso ad app store di terze parti, potenzialmente compromettibili da parte di eventuali malviventi.
Il ritorno dei SoC Kirin con Huawei Mate 60
In maniera del tutto improvvisa, nel settembre 2023 Huawei ha sorpreso tutti con l’annuncio della serie Mate 60. A dispetto del passato, per la prima volta li ha presentati in sordina ed è paradossale, perché parliamo dei primi smartphone che sono tornati ad avere microchip HiSilicon dopo anni di blocchi statunitensi. Sto parlando del Kirin 9000S, SoC che non è stato mai né presentato né nominato dall’azienda, ma che sin da subito ha attirato su di sé le attenzioni del panorama tech.
Innanzitutto, chi l’ha prodotto? Né TSMC né Samsung, essendo entrambe inibite dal ban USA: tutti gli indizi e le prove finora raccolte puntano verso la succitata SMIC, che avrebbe usato il suo processo produttivo sul nodo a 7 nm per fabbricarlo.
In seguito all’annuncio di Huawei, il parlamentare statunitense Mike Gallagher ha così affermato: “questo chip probabilmente non potrebbe essere prodotto senza la tecnologia statunitense e quindi SMIC potrebbe aver violato la Foreign Direct Product Rule“, proponendo il blocco totale delle esportazioni verso Huawei e SMIC e un inasprimento delle sanzioni. Ancora una volta, per ora non sembrano esserci prove concrete di una presunta violazione del ban. Questo perché col SoC sono stati ritrovati componenti soggetti al ban, anche se è possibile che Huawei ne avesse fatto scorta prima dell’imposizione del ban.
Nonostante parliamo di prodotti decisamente importanti per la storia di Huawei, c’è un’altra sorpresa: per la prima volta da quando la serie Mate viene venduta in occidente, Mate 60 non arriva in Europa. Il motivo non è chiaro, anche alla luce del fatto che questi smartphone rappresentano un riscatto per l’azienda. Huawei ha comunque corretto il tiro con la serie Pura 70, che dopo anni ha riportato in Europa e in Italia i suoi chip col Kirin 9010, anch’esso oggetto delle critiche statunitensi.
⭐️ Scopri le migliori offerte online grazie al nostro canale Telegram esclusivo.