C’era una volta Wiko, uno dei produttori di smartphone più promettenti che abbiamo mai avuto in Europa. Oggi, a distanza di qualche anno dall’exploit che ebbe nei mercati europei, il brand è diventato soltanto un fantasma di quello che era una volta, ma non solo. Da qualche tempo a questa parte, infatti, la compagnia sta dimostrando di essere diventata a tutti gli effetti un rebrand di Huawei, riproponendo alcuni suoi smartphone già esistenti in commercio.
Cosa sta succedendo a Wiko, e cosa la lega così strettamente a Huawei? Cerchiamo di capirlo.
Storia di Wiko, e di come è finita a essere un rebrand degli smartphone Huawei
Parto col dire che Wiko, a differenza delle Nokia, Philips ed Ericsson di una volta, non è mai stata veramente un’azienda europea. Nacque nel febbraio 2011 in quel di Marsiglia ad opera dell’imprenditore francese Laurent Dahan e di James Lin, CEO dell’ODM cineseTinno Mobile. Nonostante venisse promossa come “azienda francese”, ben presto si scoprì che Laurent Dahan possiede solo il 5% di Wiko, mentre il restante 95% era nelle mani di Mega Alliance Holdings Ltd., società con sede a Hong Kong di proprietà di Blue Sky Telecommunication Ltd. e che quest’ultima aveva come unico partner proprio la cinese Tinno Mobile.
Ma che cos’è un “ODM”? Per chi non lo sapesse, questa sigla sta “Original Design Manufacturer” e indica una società che produce per conto di altre aziende i cosiddetti oggetti “white-label”, cioè privi di marchio; in questo modo, le aziende per cui li produce possono vi appongono sopra il proprio brand e li vendono come tali. Per citare un esempio nostrano, Amoi fu l’ODM a cui venne affidata la produzione del famigerato Stonex One. Nel caso di Tinno, ha creato telefoni per Nokia, LG e Lenovo ma soprattutto si è affiancata a marchi nazionali per aiutarli a produrre per il proprio paese. Abbiamo quindi BLU negli Stati Uniti, Micromax e Intex in India, NGM in Italia, Mobistel in Germania, QMobile in Pakistan, MyPhone nelle Filippine, Fly in Russia, Evertek in Tunisia, Q-Smart in Vietnam e Wiko in Francia.
Al contrario dei brand europei storici, quindi, Wiko è sì nata in Europa ma con un animo profondamente cinese. Fecero discutere le affermazioni dell’allora direttore PR, Hervé Vaillant, secondo cui era Wiko a “scegliere specifiche, design e i 250 componenti del telefono“: peccato che già nel 2014 Wiko Highway fosse un rebrand del Micromax Canvas Knight, o anche Wiko Highway Pure come rebrand non solo di Micromax Canvas Silver 5 ma anche del Gionee Elife S5.1 e del Kazam Tornado 348.
Nel 2014 iniziò a farsi notare in Francia, dove vendette milioni di smartphone e ottenne il 15% del mercato nazionale, per poi espandersi ad altri paesi europei, fra cui anche l’Italia. Lo smartphone più di successo fu senza ombra di dubbio il Wiko Fever, che nel 2015 venne siglato come best-buy da moltissimi: schermo IPS da 5,2″ Full HD, il pluri-utilizzato MediaTek MT6753 con memorie da 3/16 GB, una 2.900 mAh, fotocamere da 13 e 5 MP e Android 5.1 Lollipop. Nulla di eccezionale, per carità, ma il suo merito fu essere un telefono estremamente equilibrato e centrato nelle specifiche e nel prezzo (199€). Unite buoni prodotti a efficaci campagne di marketing, molto connesse a social, influencer e portali tech, e otterrete la formula per conquistare risultati più che positivi.
Il successo riscosso da Wiko fu motivo d’orgoglio per il governo Hollande di allora, per un marchio che stava dimostrando di simboleggiare il “tocco francese” nel mercato telefonico. All’atto pratico, però, di Made in France non c’era nulla: già nel 2014 si riportava che in Francia lavoravano solo 65 dipendenti (di cui solo 4 ingegneri) e che il 95% della azienda era cinese (cioè di Tinno); sì, a Marsiglia venivano comunque gestiti localizzazione e marketing, ma era a Shenzhen che veniva progettato, ingegnerizzato e infine prodotto il tutto. Inutile dire che Wiko glissava sull’argomento Cina, limitandosi a parlare di “forte partnership industriale” con Tinno, definita “azionista di maggioranza“: se vedete similitudini con l’affaire Stonex, beh, non siete i soli.
Che poi, sempre in Europa è già accaduto qualcosa del genere: nel 2004, la francese Alcatel e la cinese TCL dettero vita al brand Alcatel OneTouch; e come non citare Nokia, che dopo la fallimentare parentesi Microsoft rinacque sotto forma di HMD Global in alleanza con la cinese Foxconn. E sono proprio questi legami con la Cina che hanno dapprima rallentato l’espansione di Wiko e successivamente messo in ombra l’azienda; come affermava CCS Insight nel 2014, Wiko incontrò difficoltà nell’entrare nei negozi degli operatori telefonici, poco disposti a inserirli in catalogo a causa della dubbia provenienza cinese.
Nonostante ciò, anche grazie alla sua presenza nelle catene d’elettronica, nel 2016 entrò nella top 5 in Europa dietro a Samsung, Apple, Huawei ed LG, grazie soprattutto ai risultati raggiunti nel mercato entry-level in Francia (2° posto), Italia, Portogallo (4° posto), Spagna e Belgio (5°). Nel 2017, Wiko vendette oltre 10 milioni di smartphone in più di 30 paesi, rimarcando la volontà di diventare una realtà consolidata per l’Europa. Tuttavia, fu esattamente in quegli anni che iniziarono a saltar fuori problemi che l’avrebbero rapidamente messa fuori dai giochi.
Partono le controversie in casa Wiko, fra bug e “spionaggio”
La prima controversia parte sin dalla nascita, quando Wico accusò Wiko di averle rubato il marchio. Wico venne fondata in Francia nel 2006 come fornitore di servizi di telecomunicazioni per aziende, mentre Wiko nacque nel 2011. I due fondatori di Wico puntarono il dito contro la confusione generatasi dall’estrema somiglianza fra i marchi, con Wiko che avrebbe sovrastato Wico nei motori di ricerca, non soltanto uccidendone la presenza online ma anche danneggiandola. “Perdemmo quasi tutti i nostri clienti e quelli potenziali ci davano feedback negativi“, affermano quelli di Wico, che si videro rivolte contro le critiche discusse in rete su Wiko che, proprio per questa somiglianza, finivano per ricadere anche su Wico. “Non potevamo più utilizzare il marchio e trarne alcun reddito, allo stesso tempo, gli avvocati di Wiko ci prendevano in giro e minacciavano”, con Wiko che affermava che il loro marchio fosse stato registrato in Hong Kong un anno prima di Wico. A nulla servì la proposta di 3.000€ per acquisire il marchio: nel 2019, il caso arrivò in tribunale con una richiesta di 30 milioni di eurodi risarcimento danni provocati dal 2011 al 2016.
Nel 2014, un’inchiesta trasmessa su France 2 denunciò lo sfruttamento minorile in Cina e l’estrazione di minerali pericolosi (come il tantalio) in Congo attuati dalle fabbriche a cui Wiko, assieme a Samsung, Huawei e Alcatel, si rivolgevano per la realizzazione dei propri prodotti. Sempre nel 2014, Wiko ebbe problemi software con un non poco fastidioso bug che affliggeva i suoi smartphone, che crashavano non appena ricevevano un SMS contenente il simbolo “=”; il vero problema è che il bug persisteva anche installando ROM alternative come la CyanogenMod, facendo intuire che si trattasse di una falla hardware.
Nel 2016, un’indagine della società di sicurezza Kryptowire rivelò che gli smartphone dell’americana BLU erano afflitti da malware; al loro interno era pre-installata un’applicazione, Adups, in grado di monitorare gli utenti e inviare dati ai server cinesi come lista delle chiamate, posizione GPS e altro ancora. Perché vi parlo di BLU? Perché, come Wiko, è una delle compagnie per cui Tinno Mobile produceva telefoni. E non passò molto tempo prima che le stesse indagini interessassero anche gli smartphone francesi, e indovinate un po’? Anche negli smartphone Wiko c’era un sistema di tracciamento simile, come confermò la stessa azienda: dopo aver sostituito il software di tracciamento Tinno con uno targato Wiko, specificò che da lì in avanti i dati raccolti avrebbero riguardato solo info tecniche (IMEI, seriale, versione software, ecc.). Rimaneva il problema che l’utente non fosse informato di quella raccolta dati, che non avesse la possibilità di disattivarla (in barba alle regole del GDPR) e che non avesse fornito una lista precisa di quali smartphone fossero stati tracciati da Tinno, limitandosi a un generico “quelli prodotti da ottobre 2016“.
Nel 2018, Wiko e HiSense vennero accusate di avere smartphone (Wiko Tommy 2 e HiSense F23) i cui valori SAR eccedevano i limiti imposti dall’Agenzia Nazionale delle Frequenze (ANFR); le aziende rilasciarono quindi un aggiornamento software per correggere il problema. Infine, non mancano anche casi più recenti: nel 2022, alcuni possessori di Wiko F100 si sono ritrovati addebiti anomali dovuti a SMSpremium inviati a numerazioni a pagamento.