Se avete mai acquistato un telefono nei primi anni 2000, al 99% era un modello Samsung, Motorola, Nokia, LG o Sony. 20 anni dopo, LG ha smesso di fare telefoni e Sony, Nokia e Motorola non se la passano bene. Al loro posto, sono subentrate tutta una serie di aziende che fino a qualche anno fa non conoscevamo. Huawei, ZTE, Xiaomi, ma anche OPPO e vivo. E una cosa accomuna questi marchi: provengono tutti dalla Cina. Una nazione che, nel giro di 50 anni, è passata dall’essere un paese rurale a diventare la terza economia al mondo dopo Europa e Stati Uniti. Ma com’è possibile che in relativamente pochi anni il mercato tecnologico si sia ribaltato in favore della Cina? Cos’è successo perché potesse assumere questa posizione di predominio negli smartphone? Questo è l’argomento di cui vi parlo oggi, in cui ripercorreremo la storia della Cina per scoprire come ciò sia accaduto.
Come ha fatto la Cina a diventare una tecnopotenza
Rivoluzione Xinhai e la fine degli imperatori
Per capire come tutto sia partito dobbiamo fare un bel salto all’indietro, più precisamente al 1911 quando la Rivoluzione Xinhai portò all’abdicazione dell’imperatore della Dinasta Qing e alla nascita della prima Repubblica di Cina. Ma sarà poi la Repubblica Popolare Cinese, guidata da Mao Zedon, a prendere il sopravvento nel 1949. Il post-seconda guerra mondiale vedeva la Cina come un paese fortemente rurale e lo dimostrava il fatto che lo stesso Mao puntasse tutto su una Riforma Agraria che espropriava i terreni privati per darli allo stato. Ci fu una debole ma non sufficiente crescita economica e quindi nel 1958 partì il cosiddetto “Grande balzo in avanti”, un piano che puntava a convertire il sistema economico da rurale ad industriale. Ma il risultato fu catastrofico e portò la Cina alla più grande carestia della storia: le stime parlano di numeri fra i 15 e i 55 milioni di morti.
L’ascesa di Deng Xiaoping
Non ci volle molto prima che Mao venisse progressivamente allontanato dalla politica, in favore di un Deng Xiaoping dalla mentalità meno tradizionalista. Ricordato ancora oggi come uno dei padri fondatori della Cina moderna, il suo “Socialismo con caratteristiche cinesi”, come lui lo definiva, puntava alla modernizzazione di 4 settori chiave: agricoltura, industria, tecnologia e militare. Nel mentre, in quegli anni nascevano le cosiddette Quattro Tigri Asiatiche, ovvero Sud Corea, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Sul discorso Taiwan e Hong Kong torneremo fra poco, mentre fu in Singapore, ex colonia britannica, che andò in visita quegli anni Xiaoping, rimanendo sbalordito per la crescita economica di cui quel piccolo ma ricco paese stava godendo. Singapore si sarebbe presto indirizzato verso la promettente industria tecnologica e la Cina non voleva essere da meno, per quanto fosse ancora molto arretrata rispetto alla concorrenza. Lo stesso primo ministro di Hong Kong suggerì di abbandonare le ideologie comuniste a Xiaoping, che sempre in quel periodo visitava gli USA e le fabbriche di Boeing e Coca-Cola, con cui la Cina iniziò a fare i primi affari, nonché lo storico Johnson Space Center, da cui sono partiti tutti i principali voli NASA come il celebre programma Apollo.
A questo punto, inebriato dall’innovazione dai paesi esteri, Xiaoping si trovava con un piede in due scarpe: da un lato la volontà di portare un po’ di sano capitalismo per far ripartire l’economia cinese, dall’altro la necessità di non venire meno alla retorica comunista del partito. Nonostante la modernizzazione del mercato tecnologico fosse un obiettivo primario per i leader cinesi, all’atto pratico si rivelò più difficile di quanto sperato. Dopo essere stata per troppo tempo isolata dal resto del mondo, alla fine degli anni ’70 la Cina decise di compiere il primo passo, cioè mandare scienziati e tecnici in giro per il mondo per imparare dalle nazioni più avanzate. Il secondo fu quello di avviare la cosiddetta Open Door Policy, aprendo per la prima volta le porte alle aziende straniere.
Nascita delle Zone Economiche Speciali
Per fare ciò, nel 1979 Deng Xiaoping creò forse la modifica più importante per la crescita economica e tecnologica della Cina, ovvero la nascita delle Zone Economiche Speciali. Mentre nella nazione si sarebbe mantenuta un’economia sì liberale ma a controllo statale, in queste aree geografiche il mercato avrebbe intrapreso un percorso più capitalista. Il 1979 segnò così l’apertura della Cina agli investimenti stranieri, incentivando le joint ventures fra aziende cinesi ed estere, con incentivi fiscali e puntando a creare prodotti pensati per l’esportazione. Un mercato in cui il prezzo non sarebbe stato più deciso dallo stato bensì dal mercato. I risultati sarebbero presto arrivati: dal 1979 all 1982 si stimano 6.000 miliardi di dollari di volume con le nazioni estere.
Deng istituì quindi una serie di città ad amministrazione economica autonoma con una precisa strategia geografica nel Delta del Fiume delle Perle, posizione strategica sia perché zone portuali e quindi scambi via mare, sia perché le città erano vicine ad altre zone sensibili, verso le quali s’erano creati flussi migratori a causa delle crisi degli anni precedenti. Ecco, quindi, che fra le prime Zone Economiche Speciali c’erano Zhuhai, Xiamen e Shenzhen, situate a pochi km da Macao, Taiwan e Hong Kong. Il caso di Macao, ex colonia portoghese, non ci interessa troppo, perché negli anni il suo mercato si è focalizzato sul gioco d’azzardo, diventando una sorta di Las Vegas orientale.
L’importanza di Taiwan
Ben differente è Taiwan, i cui sforzi negli anni ’70 del premier Chiang Ching-kuo la fecero rapidamente diventare un’isola altamente industrializzata, riuscendo in un’impresa a dir poco titanica: diventare leader nel mercato dei semiconduttori. Ciò fu possibile grazie ai forti investimenti governativi e alla creazione dell’Industrial Technology Research Institute, in cui vennero invitati ingegneri dai più avanzati Stati Uniti per insegnare agli studenti taiwanesi tutto ciò che c’era da sapere. Sarà proprio da questo istituto che nasceranno realtà come UMC, il primo chipmaker taiwanese, e TSMC. Mentre UMC non ha mai sfondato nel mainstream, concentrandosi su prodotti modesti come giocattoli e orologi, ben diversamente è andata a TSMC. Grazie alla partnership con Philips, poté contare su tecnologie più avanzate che gli permisero negli anni di diventare uno dei più grossi chipmaker al mondo. Qualsiasi sia lo smartphone che avete in tasca, che sia un iPhone o uno Xiaomi, con buonissima probabilità al suo interno c’è un chipset targato TSMC.
E non dimentichiamoci che sempre in Taiwan negli anni ’90 è nata anche MediaTek. Venne creata da UMC come startup per il settore multimediale, creando chip per i lettori CD e DVD, un settore finora monopolizzato dai più avanzati chipmaker giapponesi. Il trucco fu quello di offrire soluzioni a basso costo affidando la produzione fisica alle “sorelle” UMC e TSMC, conquistando il mercato CD e DVD dell’epoca con clienti come Sony, LG e Philips. Ma ben presto la dirigenza si accorse che il futuro della tecnologia si sarebbe spostato verso la telefonia e fu così che MediaTek puntò in questa direzione, puntando ad offrire ai produttori soluzioni low-cost ma flessibili nelle personalizzazioni. Queste furono le chiavi del successo che portò MediaTek a diventare il principale fornitore di chip per gli smartphone in Cina, arrivando nel 2020 al primo posto con più del 30% delle quote globali.
Insomma, senza ombra di dubbio TSMC e MediaTek hanno contribuito alla nascita, alla crescita e all’esplosione della tecnologia in Cina. Certo, ci si potrebbe chiedere come mai Taiwan e Sud Corea siano riuscite a sfondare nel mercato dei semiconduttori, mentre la più imponente Cina non abbia un’azienda all’altezza di TSMC, ma magari ne riparleremo.
Shenzhen, la Silicon Valley della Cina
A questo punto, da Xiamen e la vicina Taiwan ci spostiamo alla Silicon Valley della Cina, la città dove possiamo affermare essere nata la Cina tecnologica che oggi conosciamo. Sto parlando di Shenzhen, una città da cui proviene il 90% dell’elettronica mondiale. Per capire la sua evoluzione, anche in questo caso bisogna parlare dei flussi migratori verso la vicina Hong Kong, ex colonia britannica dove negli anni ’50 molti cinesi scappavano, accrescendone popolazione ma anche risorse umane, facendo nascere nuove aziende e quindi manodopera, competenze e capitale. Hong Kong divenne presto una meta ideale per i rifugiati asiatici: era un paese molto ricco, con bassa tassazione, poca corruzione, 0 debito pubblico ed un’economia liberista con scarso intervento statale e parità di salario fra uomini e donne.
Per frenare l’inevitabile fuga di persone, Xiaoping decise di rivoluzionare Shenzhen, facendola passare da una piccolo paesino di pescatori che contava 30.000 abitanti, ad una megalopoli che avrebbe fatto desistere l’emigrazione. E direi che c’è riuscito, visto che oggi conta più di 12 milioni di abitanti, al quarto posto fra le città con il più alto numero di miliardari. Una crescita tale che la portò negli anni ’90 ad istituire persino una sua Borsa finanziaria, considerando persino l’idea di una valuta propria. Ed è a Shenzhen che nel 1990 aprì il primo McDonald di tutta la Cina, a simboleggiare l’ormai assodata mentalità globale e non più nazionalista. Shenzhen divenne una delle quattro Tigri del Guangdong, assieme a Canton, Dongguan e Huizhou. A tal proposito, Dongguan è un’altra città molto importante per lo sviluppo tecnologico della Cina, in quanto è qua che è nata BBK e tutte le aziende che ne sono derivate.
E torniamo quindi a parlare di Shenzhen perché è qui che negli anni ’80 nasceranno tre aziende che si riveleranno importantissime per lo sviluppo tecnologico della Cina. Sto parlando di ZTE, Huawei e Foxconn. Ma andiamo per ordine.
La nascita di ZTE
Come vi ho detto prima, la Cina aveva inviato addetti in giro per il mondo per studiare nelle nazioni più avanzate. E fu così anche per Hou Weigui, che visitando gli Stati Uniti si accorse di quanto la Cina fosse arretrata nel campo dei semiconduttori, in un’epoca in cui le americane Intel e Texas Instruments guidavano il mercato. Fu così che Weigui fondò quella che all’epoca si chiamava ZTE Semiconductor, un’azienda parastatale nata con il patrocinio del Ministero dell’Industria e di quello Aerospaziale per far sì che anche la Cina potesse inserirsi in questo mercato. Tuttavia, si accorsero presto che gli investimenti richiesti sarebbero stati troppo onerosi e quindi si decise che ZTE si focalizzasse sul mercato telefonico.
Anche perché era fortemente necessario che la Cina si aggiornasse dal punto di vista delle infrastrutture, anche per sostenere questa impennata economica. All’epoca, infatti, non c’era una vera e propria rete telefonica nazionale, c’era soltanto qualche collegamento fra la capitale Pechino e le principali città. Una componente necessaria per tirar su questa infrastruttura erano gli switch telefonici, ovvero i componenti che mettono in collegamento due numerazioni.
La nascita di Huawei, fra luci ed ombre
Ma era necessario che qualcuno li costruisse, questi switch, ed oltre a ZTE nel 1987 venne creata un’altra aziende per svolgere questo compito. Sto parlando proprio di Huawei, fondata da Ren Zhengfei, un ingegnere precedentemente nel corpo militare che decise di buttarsi nel mercato della tecnologia. Il suo obiettivo era proprio quello di aiutare la Cina a costruire la sua rete telefonica e per farlo creò un business da 0, importando componenti dall’estero: inizialmente da un’azienda di Hong Kong, successivamente anche da realtà come Alcatel, Ericsson, Motorola e Nokia. Il piano era il seguente: vendere questi componenti esteri alle aziende cinesi e nel mentre fare ingegneria inversa, cioè studiare questi componenti per capire come farne a propria volta. Ed infatti, a 3 anni dalla sua nascita, Huawei riuscì a costruire il suo primo switch, arrivando nel 1993 a realizzare lo switch più potente che si potesse trovare in Cina.
Ed è qua che iniziarono a saltar fuori le prime ipocrisie di un governo che da un lato sventolava libertà sociale e di mercato e dall’altro attuava comportamenti autoritari. Basti pensare alle rivolte di Tienanmen dell’89, nate in una Cina che prometteva più libertà politica ma che all’atto pratica reprimeva coloro che si opponevano alla dottrina del partito. Ipocrisie del genere ci sarebbero state anche più avanti: dopo aver incentivato l’entrata di aziende straniere, a metà degli anni ’90 la Cina dette via ad una politica di sostegno ai produttori nazionali di telecomunicazioni come Huawei e ZTE, limitando l’accesso a quelli stranieri. Una manovra che suscitò dissapori, con la comunità occidentale che iniziò ad accusare la Cina di aver favorito l’ingresso degli stranieri solamente per copiarne o rubarne le tecnologie.
L’altro aspetto che suscitava dubbi sulla crescita di Huawei era l’intervento dello stato. Grazie agli obiettivi tecnologici raggiunti, infatti, Huawei vinse l’appalto per la costruzione della rete telecomunicativa dell’esercito. Un traguardo economico importante per la Huawei di allora, una realtà sì promettente ma che ancora non generava denaro sufficiente per il sostentamento delle sue ambizioni. Basti pensare che nel 1998 Huawei ricevette dallo stato prestiti per ben 510 milioni di dollari, ovvero il 45% di tutto il denaro che Huawei spese in quell’anno. Come affermò lo stesso Ren Zhengfei, “Huawei fu ingenua a scegliere le telecomunicazioni come business di partenza. Non era preparata per una concorrenza così forte, con aziende rivali all’estero che valevano miliardi. Se non ci fosse stato il governo, Huawei non esisterebbe più“.
L’importanza di Foxconn
Dopo aver parlato di ZTE e Huawei, non posso non parlare di un’altra importantissima realtà, ovvero Foxconn. Come TSMC, fu fondata in Taiwan e nel 1988 aprì la sua prima fabbrica in Cina, dove adesso ne conta più di 30. Il successo è arrivato a metà degli anni ’90, quando Foxconn si propose come fabbrica per tutte quelle aziende occidentali che vedevano nella manodopera cinese un vantaggio economico rilevante. La ciliegina sulla torta arrivò nel 2006, quando Apple decise di creare il suo primo telefono affidandone la produzione a Foxconn: la storia di successo di Apple che ne seguirà la conosciamo tutti. Fra l’altro, il governo cinese inserì la città di Zhengzhou nelle prima citate Zone Economiche Speciali proprio per aiutare Foxconn nella manifattura dei melafonini. Non a caso oggi è conosciuta anche come “iPhone City”, perché qua si costruiscono centinaia di migliaia di melafonini ogni giorno.
Oggi è a tutti gli effetti il più grande fornitore al mondo di servizi di produzione elettronica: i suoi clienti principali sono Apple, Xiaomi e Nokia, ma se nel salotto avete una console PlayStation, Xbox o Nintendo, beh, sappiate che anche quelle nascono in queste fabbriche, così come tantissimi altri prodotti di consumo come smart TV e notebook. Senza contare che fra le sue sussidiarie troviamo Belkin, produttore ufficiale degli accessori Apple, FIH, ovvero l’azienda che produce i Nokia, ma soprattutto un altro colosso della tecnologia come Sharp. Foxconn è non solo è uno dei più grandi datori di lavoro in assoluto al mondo, ma anche una delle aziende con il più alto fatturato, visto che da qui passa circa il 40% di tutta l’elettronica di consumo venduta nel mondo.
Il salto economico del nuovo millennio
A questo punto, negli anni ’90, la Cina si ritrova in casa compagnie come ZTE, Huawei, Foxconn e TSMC. Tutte realtà che nell’arco di qualche anno sarebbero diventate colossi e punti cardinali nel mercato mondiale, seppur negli anni ’90 abbiano dovuto combattere con lo stigma del Made in China che le faceva percepire all’estero come poco valide. E quindi aziende come Huawei si trovarono in certo qual senso costrette a mantenere una politica dei prezzi più bassa rispetto ai competitor esteri. Proprio per questo, negli anni ’90 l’espansione all’estero di Huawei si concentrò in paesi alleati, come Hong Kong e Russia, o in via di sviluppo, come Thailandia, Brasile e Sud Africa. Ma la vera crescita economica e tecnologica per la Cina inizierà con gli anni 2000, a partire dall’ingresso della nazione nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Sarà proprio in questi anni che ZTE e Huawei inizieranno a farsi conoscere anche in occidente, facendo da apripista a tutta una serie di compagnie cinesi come Lenovo, Xiaomi, OPPO, vivo, Alibaba, Tencent e DJI, per citare solo le principali. La Cina continuerà ad investire nel settore privato, che nel 2000 rappresentava il 70% del PIL totale, arrivando così a ridurre il il tasso di povertà dal 53% nel 1981 all’8% nel 2001. Negli anni successivi la Cina diventerà il più grande paese al mondo per esportazioni ed importazioni, arrivando ad essere oggi la 2° economia nel mondo, con le previsioni che la danno al 1° posto entro il 2030.
Questa è la storia che ha reso la Cina la tecnopotenza che oggi conosciamo, una storia fatta inevitabilmente di luci ed ombre, fatta di passione, forza di volontà ma anche tante ipocrisie e brutture. Qualcuno potrebbe dire che senza gli enormi sacrifici affrontati dal popolo, il miracolo cinese non sarebbe potuto accadere e probabilmente non avrebbe tutti i torti.
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