Vi faccio una domanda: che cos’hanno in comune Essential, Smartisan, Nextbit, BQ, Pebble, Meizu, Nubia e OnePlus? Esatto, sono tutti enthusiast brand, cioè nati e più o meno sviluppatosi puntando alla platea più appassionata di tecnologia. Ma l’altra cosa che hanno in comune è che praticamente tutti hanno chiuso i battenti, tutti sono stati acquistati o tutti si sono pesantemente ridimensionati. Tutti tranne uno, OnePlus, un brand che però si sta sempre più allontanando dalle sue origini e da qui nasce un titolo sì provocatorio, ma che mi aiuta a introdurvi alla trappola delle startup. Lasciate che vi spieghi come riconoscerla e come mettervi al riparo.
Come ha fatto OnePlus a diventare famosa?
Quando una startup nasce, non ha i soldi per competere con i colossi del settore, ergo deve trovare una strategia alternativa per farsi conoscere. E spesso decide di giocare la carta dell’underdog: Davide contro Golia, la piccola bottega di quartiere contro la fredda e asettica multinazionale. Uno degli esempi migliori è quello di Smartisan, una mosca bianca in una Cina dove a comandare sono Xiaomi, Huawei, OPPO e vivo, tutte realtà che hanno conquistato il mondo a botte di decine e decine di telefoni ogni anno senza badare troppo alle loro qualità. Ecco, Smartisan ha fatto l’esatto opposto, creando pochi telefoni l’anno, estremamente curati lato hardware e software, per una platea palesemente di nicchia, mantenendo immutata questa filosofia per anni. Non a caso, Smartisan nasce dall’unione delle parole “Smart” e “Artisan“, cioè “artigiano“. Beh, secondo voi che fine ha fatto Smartisan?
Il suo business case ci insegna che nel mercato tecnologico una strategia del genere è inattuabile sul lungo periodo, ed è qua che entriamo nel vivo del discorso. In che modo una startup può sedurre il pubblico? Vediamo alcuni dei casi più eclatanti.
Per esempio, Pebble debuttò su Kickstarter, piattaforma di crowdfunding che per natura fomenta il concetto di early adopter: chi spende per primo, spende meno. Ed ecco che entrano in ballo meccanismi mentali come la FOMO, la paura di essere tagliati fuori, nonché l’intrigante idea di aver contribuito di tasca propria ed essere salito per primo sul treno di quella che potrebbe rivelarsi la nuova Apple. Dinamiche confermate dal flop che invece ZTE ha avuto su Kickstarter, proprio per il suo essere un’azienda già affermata al contrario della Pebble di turno, quindi senza quel brivido di investire in qualcosa di nuovo e promettente. Ma a fine 2016 Pebble è stata acquisita da Fitbit.
A proposito di smartphone, ci sono altri esempi di startup che hanno cercato di sedurre la clientela con approcci alternativi a quelli mainstream. Vi ricordate Nextbit ed Essential? La prima nasceva da ex membri Google, Apple, HTC e Amazon, la seconda nientepopodimeno che dal fondatore di Android Andy Rubin, quindi entrambe erano sì nuove aziende ma che nascevano da personalità famose e di rilievo, potendo così instillare più fiducia ai clienti. Per distinguersi, poi, entrambe crearono smartphone esteticamente stravaganti e con capacità tecniche che attirassero gli entusiast. Nextbit Robin era il primo smartphone in cloud. Essential Phone riprendeva il concetto di modularità. Due feature tanto affascinanti quanto fumose per varie ragioni che non starò qua a spiegarvi ma a cui penso possiate arrivare da soli. A inizio 2017 Razer acquista Nextbit, mentre a febbraio 2020 Essential Products ha annunciato la chiusura.
C’è poi il particolare caso di BQ, che tentò la strada degli smartphone con un’ottica diversa, puntando a un ecosistema open source, stampanti 3D, robotica, affiancandosi alle scuole per portare la tecnologia ai più piccoli. Realizzò persino uno smartphone con Ubuntu, concept abbracciato anche da Meizu ma in entrambi i casi con risultati molto scarsi. È il 2018 quando BQ annuncia di essere stata acquistata dalla vietnamita Vingroup.
L’unica sopravvissuta: OnePlus
Ma arriviamo all’unica eccezione in tutto questo discorso, il core di questo editoriale, cioè OnePlus, che di tutti questi esempi è l’unico ad aver raggiunto un certo successo su scala globale. E adesso vi spiego la strategia con cui ha raggiunto questo risultato, riassumibile in tre step.
Punto primo: acquisire prestigio. Pur nascendo in Cina, OnePlus indossò subito una veste occidentale, rivolgendosi principalmente ad America ed Europa. Questo le permise di guadagnare prestigio rispetto a marche come Xiaomi e Huawei che, nonostante gli sforzi, finiscono per apparire come marche più tipicamente cinesi e quindi più cheap, più economiche. E se ciò le relega alla fascia medio/bassa, la verve occidentale permise a OnePlus di esordire solo ed esclusivamente con top di gamma per la fascia alta. E poi, se acquisì subito prestigio fu anche perché, se gli altri lanciavano molti (troppi) modelli l’anno, OnePlus ne lanciava pochi ma buoni, creando quindi prodotti in grado di mantenere il proprio valore più a lungo e non svalutarsi dopo poco.
Punto secondo: sfidare i potenti. Quelli di OnePlus non erano top di gamma qualsiasi, bensì flagship killer, cioè smartphone di fascia alta ma con prezzi molto minori della concorrenza. Mentre Samsung Galaxy S5 costava 699€, OnePlus One ne costava soltanto 269€. E mentre la concorrenza vendeva telefoni più costosi ma con software polverosi, pesanti e limitanti, per la prima volta OnePlus One montava una custom ROM pre-installata come la CyanogenOS, il paradiso di ogni smanettone. Inoltre, se gli altri spendevano milioni in pubblicità, costi che ovviamente ricadevano sui consumatori, OnePlus lasciava che a fare pubblicità gratuita fosse la sua community, a cui dava voce sui forum e con eventi in giro per il mondo.
Punto terzo: creare esclusività. Anziché andare in crowdfunding, mossa che avrebbe rischiato di dare un’impressione meno prestigiosa, meno solida del brand, OnePlus optò per un sistema a inviti. Solo chi aveva l’invito poteva comprare OnePlus One e per averlo bisogna essere invitati da chi già ne aveva uno. In questo modo, non soltanto OnePlus poteva sapere quanti avrebbero acquistato il telefono e produrne la giusta quantità evitando sprechi, ma soprattutto poteva dare quel senso di esclusività a coloro che l’avrebbero acquistato per primi. Condite il tutto con un stunt pubblicitario come Smash the Past, in cui si invitava a spaccare il vecchio telefono per avere un invito, ed ecco che avete creato le fondamenta per la vostra startup.
Dare voce agli utenti è anche un rischio
Merito di OnePlus è anche quello di aver creato un forte senso di community, dove i clienti non erano solo clienti ma membri attivi e coinvolti, perciò incentivati a fare pubblicità online e con gli amici. Ma una community forte può anche essere un rischio: avere utenti appassionati come clienti alla lunga diventa un problema, per vari motivi. Innanzitutto, gli appassionati sono pochi rispetto all’utente medio, cioè alla maggioranza, quindi economicamente non offrono lo stesso sostegno delle platee più mainstream. Pur essendo la minoranza, hanno però una presenza internettiana maggiore: girano su gruppi Facebook, Telegram, commentano le notizie, perciò, anche se sono meno, un loro feedback negativo ha una cassa di risonanza maggiore.
Anche perché, rispetto all’utente medio, l’appassionato si informa di più e quindi tende a essere più critico. Sono anche molto attenti al supporto software e si lamentano se gli aggiornamenti non arrivano subito. E poi, informandosi tanto sono anche molto attenti ai prezzi: non sopportano l’idea di pagare tanto e non avere il massimo sulla carta. Vogliono l’ultimo Snapdragon, il display più pregiato, la fotocamera più potente ma vogliono spendere poco. Perché se nel 2014 OnePlus One era il top e costava solo 299€, adesso OnePlus 9 Pro costa quasi 1000€? Un ragionamento che nasce perché è l’azienda stessa ad aver falsato la visione di mercato, illudendo che un modello di business del genere potesse essere sostenibile sul lungo periodo.
Per attuare la sua crescita, OnePlus ha prima abituato il suo pubblico ad avere più telefoni all’anno, ma comunque sempre top di gamma con la nascita della serie T, in modo da tenersi buoni i suoi fan più entusiast. Poi ha dato il via a collaborazioni per aumentare la popolarità del brand ma rimanendo in target, per esempio con McLaren che, come OnePlus, fa delle performance il suo cavallo di battaglia. Ma crescita significa anche crescita dei prezzi: dai 269€ per OP1 si passa ai 399€ per OP2, nel 2016 la serie T sale a 439€, poi 499€ con OP5, 559€ con il 6T, poi nel 2019 la mossa diabolica: si passa da 2 a 4 top di gamma, così da giustificare il fatto che sì, il modello top costasse 200€ in più dell’anno prima, ma con anche un modello un po’ meno accattivante a 599€. E concludiamo con 2020 e 2021, annate in cui OnePlus hanno raggiunto i 1000€ di listino. Nel frattempo, la OnePlus che non spendeva nulla in marketing passava a staccare assegni a Robert Downey Junior e Emily Ratajkowski.
L’unica via per il successo globale richiede una transizione, usando la pubblicità che la fanbase ti ha fatto per anni su internet, per di più gratuitamente, per iniziare a far salire a bordo anche clienti più casual. Altre aziende hanno fallito in ciò, ma OnePlus è stata l’unica davvero in grado di attuare questa transizione, anche con qualche passo falso, come quel OnePlus X che nel 2015 fallì nel proporsi a un pubblico più mainstream.
OnePlus e OPPO: un legame controverso
Se questa transizione ha avuto successo, buona parte del merito va anche a OPPO. Vi ricordate quando negavano di essere sostanzialmente la stessa azienda? Questo permise a OnePlus di tenersi lontana da una multinazionale come OPPO e costruirsi una reputazione da startup genuina, da sola contro tutti. Peccato che la ricarica Dash Charge fosse un rebrand della ricarica VOOC di OPPO, che OnePlus One fosse quasi identico a OPPO Find 7, che OnePlus X fosse un rebrand OPPO A30, che OnePlus 5 fosse OPPO R11, che OnePlus 6 fosse OPPO R15, che OnePlus 6T fosse OPPO RX17 Pro. Ah, se foste curiosi c’è un articolo con tutte queste “somiglianze”. Il motivo per cui, a distanza di anni, OPPO e OnePlus si sono fuse è chiaro. Nel momento in cui nasce la serie Nord e si manifesta apertamente di puntare a un pubblico mainstream e non più solo agli appassionati, non c’è più ragione di nascondere un legame che probabilmente c’è sempre stato ma che all’inizio avrebbe danneggiato l’identità anarchica della OnePlus degli esordi.
Ed è interessante notare come uno dei fondatori di OnePlus, Carl Pei, abbia lasciato l’azienda e fondato una nuova startup, Nothing, con cui sta attuando praticamente le stesse strategie. Come Nextbit ed Essential, ha creato un prodotto stravagante in un mondo di cuffie tutte uguali. Come Nextbit ed Essential, si è affidata a personalità di rilievo come Carl Pei ma anche membri di compagnie famose come Dyson e Teenage Engineering. E come molte startup, anziché spendere in pubblicità ha costruito hype attorno al prodotto, con teaser criptici, collaborazioni con influencer, ma anche lo stesso hype dal fatto che Nothing nasca da un Carl Pei che secondo alcuni avrebbe abbandonato OnePlus dopo che questa ha perso quell’identità cool e hipster degli inizi, identità che invece ritroviamo su Nothing.
Ora, non fraintendetemi: questa non è una filippica contro gli appassionati di tecnologia, io in primis faccio questo lavoro perché sono un appassionato. Piuttosto, prendete questo editoriale come un vademecum, come una guida per non cadere nella trappola dell’entusiasmo e dell’hype. Se c’è una cosa che i fatti che vi ho raccontato ci insegnano è che ognuno spende i soldi come meglio crede, l’importante è che lo faccia senza fare il gioco delle squadre, senza innamorarsi di aziende che nascono per fare profitto. Siate consumatori consapevoli, non siate fanboy.