Nonostante si ostini a non parlarne, sappiamo praticamente per certo che Huawei è tornata a prodursi i microchip da sola, e non unicamente nel mercato degli smartphone. Il nuovo Kirin 9000S alimenta i vari modelli della serie Mate 60 e molto probabilmente anche il nuovo tablet MatePad Pro 13.2, senza contare i chip dentro a smartwatch, cuffie true wireless e gadget vari. Ma c’è un settore altrettanto importante per le casse dell’azienda, ed è quello della videosorveglianza, ambito per sua natura dibattuto, specialmente nel caso dell’azienda cinese.
Huawei in trattativa con i talebani per tornare nel mercato della video-sorveglianza
Come riporta Reuters, Huawei sarebbe tornata a occuparsi dei microchip utilizzati all’interno delle telecamere di sorveglianza, uno dei prodotti che l’azienda ha esportato in diverse parti del mondo. Nonostante questa tipologia di chip “sia relativamente facile da produrre rispetto ai processori per smartphone“, è comunque un traguardo che conferma ancora una volta che Huawei starebbe riuscendo ad aggirare i limiti del ban statunitense, con una divisione semiconduttori (HiSilicon) che starebbe lentamente tornando operativa come un tempo.
Prima dell’inserimento nella famigerata Entity List, il 60% dei chip nelle videocamere di sicurezza in tutto il mondo era fabbricato da Huawei, numero che è poi crollato sotto al 4% nel post-ban. E se adesso una parte dei clienti a cui sarebbero destinati questi nuovi chip sarebbero cinesi (fra cui Hikvision e Dahua), Huawei sarebbe coinvolta anche in trattative con soggetti alquanto controversi. Sto parlando dei talebani, che già nel 2001 avrebbero intrattenuto rapporti con l’azienda cinese (oltre che con Iraq e Pakistan) per l’acquisto di apparecchiature di sorveglianza delle comunicazioni.
Salto in avanti ai giorni nostri, con Huawei che starebbe aiutando i talebani a realizzare un’ampia rete di videosorveglianza in Afghanistan. L’amministrazione talebana ha confermato di star focalizzandosi sulla repressione del terrorismo di matrice islamica dopo gli attacchi subiti nelle città afghane, in cooperazione con Stati Uniti, Turchia e Cina. Un piano che sarà attuato nel corso di almeno 4 anni e per il quale è stata avviata quella che è stata definita una “semplice chiacchierata” con Huawei, che secondo Reuters lo scorso agosto avrebbe raggiunto un accordo verbale con i talebani per l’installazione delle sue tecnologie di sorveglianza.
Huawei ha confermato la vicenda, affermando però che “nessun piano era stato discusso” fra le due parti; nel mentre, un portavoce del ministero degli Esteri cinese ha affermato che “la Cina ha sempre sostenuto il processo di pace e di ricostruzione in Afghanistan e ha sostenuto le imprese cinesi nella realizzazione di una cooperazione pratica rilevante“.
Si contano oltre 62.000 videocamere nelle principalità citta dell’Afghanistan, ma aumenta il timore per gli oppositori del regime di maggiore oppressione verso cittadini e manifestanti. Secondo Matt Mahmoudi di Amnesty International, questo rafforzamento della sicurezza “costituisce un modello affinché i talebani continuino con le loro politiche draconiane che violano i diritti fondamentali“. Ci sono poi i problemi della rete elettrica: solo il 40% degli afghani ha accesso all’elettricità, e ciò diventa ovviamente un problema per la videosorveglianza.