Nella legge si parla di un “centro italiano per il design dei circuiti integrati a semiconduttore”, per un progetto ChipsIT fondato dall’unione di ministero dell’Economia e delle finanze, ministero delle Imprese e del Made in Italy e ministero dell’Università e della ricerca; nasce per “promuovere progettazione e sviluppo di circuiti integrati, rafforzare la formazione professionale nella microelettronica e costruire una rete di università, centri di ricerca e imprese per l’innovazione e il trasferimento tecnologico“. Non c’è ancora niente di deciso e l’area geografica sarebbe ancora in fase di valutazione, ma per la sede si parla di Pavia, con ramificazioni in quel di Bologna (dove c’è CINECA e il supercomputer Leonardo HPC) e Catania (dove c’è una delle sedi del chipmaker STMicroelectronics). ChipsIT si fa ancora più importante quando – secondo il Corriere – il progetto Intel sarebbe da considerare “se non tramontato, molto improbabile“, per non parlare di quello TSMC.
Tuttavia, sorgono dubbi quando si guarda agli investimenti previsti: 225 milioni di euro da qui al 2030. Oltre ai classici dilemmi burocratici intrinseci del sistema italiano, sono investimenti che possono sembrare cospicui ma che rappresentano una piccola frazione se confrontati con quelli di altre nazioni estere, che per di più godono di una posizione ben più vantaggiosa rispetto all’Italia. Mentre il Chips Act europeo prevede 43 miliardi, oltre a un Chips Act da 52 miliardi gli Stati Uniti ci sono in ballo 200 miliardi per Intel e Micron e i quasi 70 miliardi spesi da TSMC e Samsung per costruire nuove fabbriche sul suolo americano; per non parlare della cifra monstre di 400 miliardi del piano sud coreano. C’è poi la questione del voler attirare privati che investano nel progetto ChipsIT, compito tutt’altro facile proprio in virtù delle cifre tutto sommato modeste.
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