Sapete che, nel 2021, Google ha ricavato oltre l’80% delle sue entrate solamente dalla pubblicità e guadagnato oltre duecento miliardi di dollari? Secondo il Dipartimento della Giustizia, Google avrebbe raggiunto questi risultati monopolizzando la pubblicità online con le sue tecnologie, ottenendo commissioni gonfiate e riempiendosi le tasche a spese degli inserzionisti.
Google subisce la quinta causa anti-trust in tre anni
Ed è così che il colosso di Mountain View finisce nuovamente in tribunale (subendo la quinta causa anti-trust negli ultimi tre anni), accusato di aver gravemente indebolito la concorrenza nel settore della pubblicità digitale con i suoi sistemi e le sue tecnologie.
Volendo fornire qualche dato, Google deterrebbe circa il 29% del mercato della pubblicità digitale statunitense, includendo tutti quegli annunci che appaiono su smartphone, tablet, computer e altri dispositivi connetti a Internet (Insider Intelligence).
La causa è stata depositata lo scorso martedì nel distretto orientale della Virginia, e al Dipartimento della Giustizia si sono poi uniti gli stati della California, Colorado, Connecticut, New Jersey, New York, Rhode Island, Tennessee e della Virginia. Il DOJ sostiene che Google ricavi almeno 30 centesimi per ogni dollaro pubblicitario che scorre attraverso la sua tecnologia, e talvolta anche di più.
Secondo il procuratore generale Merrick Garland, Google non solo controlla la tecnologia utilizzata dalla maggior parte degli editori per la vendita di spazi pubblicitari, ma controlla anche lo strumento principale utilizzato dagli inserzionisti per acquistare tale spazio pubblicitario.
Da ciò consegue un minor guadagno per chi possiede un sito Web, una maggiore spesa per gli inserzionisti e sempre più editori costretti a fornire i propri contenuti attraverso abbonamenti, paywall e – insomma – mettendo a punto altre soluzioni a pagamento per poter compensare le loro entrate. Dall’altra parte, Google respinge le accuse sostenendo che il Dipartimento di Giustizia si sia schierato a favore di una argomentazione che rallenterebbe l’innovazione, aumenterebbe le tariffe pubblicitarie e renderebbe più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese ed editori.
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