Ad una delle sedute dell’Assemblea Generale ONU del 2020, la Cina dette un importante annuncio: emissioni zero entro il 2060. Un obiettivo notevole, per alcuni persino impensabile per una nazione che deve il suo fabbisogno energetico alla moltitudine di centrali a carbone disseminate sul territorio. Un anno dopo, sempre alle Nazioni Unite, la Cina ha rilanciato il suo precedente annuncio, dichiarando la volontà di non costruire più centrali fuori dalla nazione. Soltanto negli ultimi 7 anni, la Cina ha investito quasi 200 miliardi di dollari in nuove centrali all’estero, specialmente in quelle nazioni in via di sviluppo dove affidarsi al carbone è la scelta più conveniente (anche grazie alla spinta cinese).
Tutte queste scelte del governo Xi Jinping stanno iniziando ad avere conseguenze, ma non soltanto positive. Sono mesi che la Cina sta vivendo una vera e propria crisi energetica, fra rincari per carbone e gas vista la crescente domanda di mercato e mancanza di energia idroelettrica. Il governo cinese ha iniziato a stringere la cintura attorno a quelle regioni che non hanno rispettato gli accordi di diminuzione energetica. In particolare Guangdong, Jiangsu, Zhejiang, Liaoning, Jilin e Heilongjiang, cioè zone geografiche dove si concentra la maggior parte delle aziende di produzione tecnologica. Zone come il Guangdong usano l’energia idroelettrica per il 30% del suo fabbisogno energetico, ma ha vissuto un’estate più calda del solito che ha ridimensionato i bacini acquiferi a disposizione.
La Cina sta vivendo una crisi energetica che si rifletterà sul mondo tech
Tutte queste regioni e province stanno vivendo una crisi energetica non di poco conto, con interruzioni della fornitura di corrente che stanno mettendo a dura prova le tempistiche previste. E se le fabbriche cinesi non riescono a rispettare i tempi, è scontato che questi ritardi si riflettano in un po’ tutto il mercato tecnologico. Anche perché bisogna considerare che siamo ancora nel bel mezzo della crisi dei semiconduttori. Nazioni dove la Cina delega la produzione, come Vietnam e Malesia, stanno ancora subendo i limiti della pandemia da Covid-19.
Ecco, quindi, che diversi fornitori di punta di compagnie come Apple e Tesla si sono trovati costretti ad interrompere la produzione nelle aree succitate. Aree che comprendono compagnie come Pegatron, ma anche affiliate di Foxconn come Eson Precision Engineering, Unimicron Technology, Concraft Holding. Tutte fabbriche che hanno strettamente a che fare con la produzione degli ultimi iPhone 13, ma la lista non finisce qui. Ad essere colpite ci sono anche aziende partner di Intel, NVIDIA, Qualcomm, NXP, Infineon e ASE Tech Holding, pertanto anche i produttori di chipset non ne saranno esenti.
Molte delle compagnie travolte dalla crisi energetica in Cina hanno ricevuto avvisi in cui viene comunicata l’interruzione dell’elettricità dal 25 al 28 settembre dalle 08:00 alle 24:00. Per questo, i dipendenti di alcune di queste aziende si sono visti quasi costretti a ripiegare per il turno notturno per mandare avanti la produzione. Molte di queste aziende hanno prontamente rilasciati dichiarazioni ufficiali alle varie borse asiatiche agli azionisti, timorosi del crollo dei rispettivi titoli.
Ad essere coinvolte dalle restrizioni del governo non ci sono soltanto le fabbriche, ma anche le famiglie cinesi. Le province settentrionali hanno richiesto ai propri cittadini di affidarsi alla luce naturale anziché all’illuminazione artificiale. Non solo: le richieste riguardano anche il non utilizzo di aria condizionata, microonde ed i vari elettrodomestici ad alto consumo. A causa del clima più rigido, la Cina del nord fa ancora molto affidamento sull’energia a carbone, pertanto fa fatica ad incontrare i paletti imposti dal governo. Anche per questo, la Cina ha messo al bando le criptovalute, allontanando i miner dalla nazione.
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