Oggi più che mai, essere un’azienda tecnologica significa scontrarsi con una crisi dei chip che continua ad affliggere il mondo, soprattutto la Cina. Di tutte le potenze economiche globali, la Cina è quella che consuma il maggior numero di semiconduttori ma che allo stesso tempo dipende in maniera significativa dalle nazioni estere; in particolare Stati Uniti e Taiwan, con cui la Cina è storicamente in contrasto. In virtù della delicata situazione tecnologica, con gli USA che stanno attuando varie misure di consolidamento della propria posizione ma anche restrittive nei confronti della rivale asiatica. Lo abbiamo visto con il CHIPS Act e la Chip 4 Alliance, ma anche il ban di Huawei e l’affossamento della sua HiSilicon, così come quello contro SMIC, il blocco dei chip AI di NVIDIA e AMD, delle attrezzature per le memorie e dei software di progettazione dei chip.
Migliaia di aziende stanno fallendo in Cina a causa della crisi dei chip
Negli anni, la Cina ha provato a smarcarsi dalla dipendenza dall’estero, creando realtà come Zhaoxin e Hygon nelle CPU, Biren nelle GPU e Yangtze, ChangXin e JHICC nelle memorie. Tuttavia, per quanto la nazione abbia le fabbriche di SMIC e SMEE per la stampa fisica di questi chip, compagnie come TSMC rimangono ancora cruciali per la competitività sul mercato; senza contare che i suddetti limiti stanno gravano in maniera significativa sulle società cinesi. Finora, nel corso del 2022 la Cina ha assistito al fallimento di 3.470 aziende legate al mondo dei chip, aggiungendosi alle 3.420 aziende chiuse nel 2021 e alle 1.397 nel 2020.
Come afferma Zheng Lei, professore dell’Università di Hong Kong, l’industria dei chip è un settore ad alta densità di capitale e risulta difficile restare in attività a queste condizioni. Secondo il fondatore del chipmaker cinese GSR Electronics, la voglia di investire è “giunta al termine“, e molte start-up si ritrovano dalle stelle alle stalle nell’arco di pochi mesi; per esempio Nurlink, che dopo aver ricevuto finanziamenti per oltre 28 milioni di dollari meno di un anno fa, adesso non riesce più a pagare i dipendenti. Se negli scorsi anni il fermento tecnologico pre-pandemia aveva portato a un’ondata di investimenti e nuove apertura (+23.100 nel 2020 e +47.400 nel 2021), il 2022 sta costringendo moltissime società a rivedere i propri piani; specialmente in una nazione come la Cina, afflitta dalla crisi energetica e dove bastano pochi contagi a chiudere intere città da decine di milioni di abitanti. Particolarmente incisivo è stato il blocco di due mesi di Shanghai, zona dove operano molti produttori nazionali e non; una volta concluso, il mercato cinese dei chip ne è uscito con un calo di oltre il 12% delle importazioni.
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