Il problema della Cina nei videogiochi

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Se devo pensare a una delle più grandi dicotomie della storia recente, beh, non posso non pensare ai videogiochi in Cina. È il più grande mercato videoludico al mondo, con incassi oltre i 41 miliardi nel 2021. È la nazione con oltre 600 milioni di videogiocatori, e dove essere pro gamer è legalmente un lavoro. È la nazione di Tencent e NetEase, i due publisher più ricchi al mondo, con incassi da 10 miliardi nel 2021, più di tutti gli altri publisher messi assieme. È la nazione dei giochi più profittevoli al mondo, come PUBG Mobile, Arena of Valor e Genshin Impact. È la nazione dove si fabbrica ogni console che popola i nostri salotti, che siano Sony, Microsoft o Nintendo. Nonostante tutto ciò, da sempre la Cina porta avanti una lotta ai videogiochi che ancora oggi va avanti, perciò vi voglio spiegare come questa lotta sta cambiando anche il mondo dei videogiochi in occidente.

Il problema della Cina nei videogiochi

La genesi videoludica

Stati Uniti e Giappone: queste sono le nazioni a cui dobbiamo la nascita del mondo videoludico. Prima gli Stati Uniti del dopoguerra, soprattutto quell’Atari 2600 che vendette così tanto da paradossalmente provocare il crollo del mercato negli anni ‘80. Se oggi abbiamo solo 3 console, pensate: dal ‘76 al ‘82 ne vennero create qualcosa come 22 modelli, proprio per cercare di cavalcare il successo di Atari, in un mercato che però non aveva ancora la maturità e la stabilità odierne. E dopo gli Stati Uniti fu il turno del Giappone, che risollevò le sorti dell’intero settore per merito di Nintendo e SEGA con le rispettive Famicom e Master System.

nintendo sega atari

Stati Uniti e Giappone, ancora oggi un asse portante per l’intera industria: e già qua la Cina storce il naso, dato che parliamo di due nazioni con cui storicamente non va d’accordo. Le prime console nacquero fra anni ’70 e ’80, epoca in cui dire dire che la Cina se la passava male sarebbe un eufemismo, visto che usciva dalla peggiore carestia nella storia dell’umanità. Dalle mani di Mao Zedong passò a quelle di un Deng Xiaoping più propenso ad aprire l’economia cinese al resto del mondo. Consideriamo, però, che negli anni ’80 l’85% della popolazione cinese viveva con solo 1$ al giorno e avere una TV era un lusso per molti, figuriamoci una console. Sulla spinta del governo Xiaoping, la Cina iniziò a uscire dalla povertà e verso fine anni ‘80 la TV entrò nelle case di due terzi della popolazione.

Tuttavia, la Cina era irraggiungibile per qualsiasi casa videoludica e ancora oggi è un mercato ostico per molti. Ma è importante non confondere l’ostruzionismo che la Cina fece fra anni ’90 e 2000 con quanto sta accadendo in questi anni sotto la guida di Xi Jinping.

televisione cina

Una sfida morale o geo-politica?

Se siete videogiocatori di vecchia data, Nintendo e SEGA sono due capisaldi della vostra infanzia. Se si sommano NES, Super Nintendo, Master System e Mega Drive si toccano le 150 milioni di console vendute. Probabilmente anche voi ne avete una o, se siete troppo giovani, sono sicuro che vostro padre o vostro zio ne hanno una in soffitta o in cantina.

Mentre da noi le console nipponiche prendevano piede, la Cina degli anni ‘90 ne disincentivava la vendita con dazi fino al 130%. Il motivo “ufficiale” è che la società cinese vedeva il videogioco come un deterioramento morale dei più giovani, coniando espressioni come “oppio digitale” o proverbi come “wan wu sang zhi”, che tradotto significa “l’eccessiva indulgenza nel giocare sminuisce le ambizioni”. Preoccupazioni che derivavano anche e soprattutto dalla One Child Policy, legge oggi abolita ma che un tempo obbligava le famiglie cinesi ad avere un solo figlio. Il timore dei genitori era che il figlio fallisse negli studi per colpa dei videogiochi, in una Cina dove il successo scolastico va raggiunto a tutti i costi, anche a costo di sacrificare qualsiasi tipo di distrazione ludica.

Verrebbe da dire, quindi, che la lotta ai videogiochi sia nata per una questione morale. Ma ciò è vero solo in parte, perché scavando più a fondo ci si accorge come la questione abbia toni più tipicamente economici e geopolitici, e come la Cina abbia usato la morale per approfittarsene.

bambino videogioco cina

Il mercato dei cloni

Non scopriamo certo oggi che la Cina non ha mai visto di buon occhio l’intrusione dello straniero. Ve ne ho parlato nel video-editoriale “Perché tutti gli smartphone vengono dalla Cina”: se la nazione è cresciuta così tanto negli anni ’90, è anche grazie alla furbizia nell’invitare aziende straniere, offrendo loro manodopera a basso costo e in cambio imparando (o nei peggiori dei casi rubando) quella conoscenza che poi gli sarebbe servita per rendersi indipendente e via via chiudere quei confini una volta aperti. Come diceva Isaac Newton, “Se ho visto più lontano, è stando sulle spalle dei giganti”.

E mentre la Cina tassava le console giapponesi, permetteva l’esistenza di realtà come Subor: esatto, quella che poi è diventata BBK e che, grazie alle ricchezze accumulate, ha potuto fondare aziende come OPPO, vivo, Realme e OnePlus: se foste curiosi, della storia di BBK ve ne parlo in questo video-editoriale. Negli anni ‘90, una Subor sull’orlo del fallimento fece la sua fortuna creando veri e propri cloni del Famicom a soli 20/30$. Fu talmente machiavellica da arrivare a creare un Frankenstein: uno pseudo-Commodore 64 che sembrasse più un PC che una console agli occhi dei genitori, venduto come “macchina per l’apprendimento”, con tanto dell’idolo delle folle cinesi Jackie Chan come testimonial. Peccato che sotto sotto fosse in grado di leggere tranquillamente le cartucce del Famicom.

Negli anni ‘90, Nintendo provò a entrare in Cina con l’aiuto dell’azienda Mani Toys di Hong Kong, provando a vendere Famicom e Super Famicom ma a prezzi troppo elevati. La più economica Subor si prese in poco tempo l’80% del mercato videoludico cinese, e in tutto ciò Nintendo non poté fare nulla. Vuoi per le claudicanti leggi cinesi sul copyright, vuoi perché non c’erano strumenti per individuare le console fake come adesso con i controlli online, vuoi perché il mercato nero dei cloni era troppo più conveniente per le tasche dei cinesi. Ulteriore beffa era il fatto che Nintendo si scontrasse con la competizione delle console SEGA… ma non quelle originali, quelle contraffatte.

cloni subor

Se la Cina credeva veramente che le console fossero oppio digitale, com’è possibile che un’azienda come Subor abbia venduto decine di milioni di console? Com’è possibile, poi, che la provincia del Fujian, altra zona economica speciale dove la Cina aveva aperto le porte al mondo, desse i natali a compagnie come Waixing. Un’azienda che prendeva le ROM dei giochi giapponesi, le traduceva e le schiaffava in una cartuccia per venderle in Cina. Titoli come Fire Emblem, Dragon Quest, Final Fantasy, Zelda, Pokémon: tutti giochi che poi finivano, guarda caso, dentro ai cloni Subor. Per un bambino cinese, Waixing era la manna dal cielo: giochi in cinese che altrimenti non sarebbero mai stati tradotti ufficialmente, nonché le primissime e famigerate cartucce da 100 giochi. Perfette per i genitori più progressisti, che con pochi dollari facevano felici i figli per mesi, che per quelli più testardi, perché il figlio li avrebbe potuti convincere a comprargli una sola cartuccia che in realtà nascondeva centinaia di ore di gioco. E furono proprio queste cartucce a danneggiare l’unico successo cinese della Nintendo degli anni ’90, che sempre in collaborazione con Mani Toys portò in Cina il celebre Game Boy vendendone milioni. Peccato che nessuno comprasse le costose cartucce ufficiali, preferendo loro le contraffazioni.

waixing cartucce

Ora, sarebbe ipocrita dire che la pirateria non sia stata un fenomeno di massa anche in occidente: chi di noi non ha avuto una PlayStation o una Xbox modificata? Ma col senno di poi, possiamo dire che Sony ne abbia parzialmente beneficiato, vendendo centinaia di milioni di console e rendendo PlayStation un brand enorme, acquisendo una popolarità tale da permetterle di essere diventata il colosso qual è oggi. Al contrario, dalla pirateria in Cina Nintendo non ha guadagnato nulla: le console vendute non erano le sue, i giochi venduti non erano i suoi e, come vedrete più avanti, anche quando ha potuto vendere ufficialmente in Cina non ha avuto il successo sperato.

Come internet ha cambiato tutto

Ma arrivano gli anni 2000 e, con essi, la morte del mercato dei cloni. Non fraintendetemi: tutt’oggi dalla Cina arrivano fior fior di pezzotti, ma non è più un mercato importante come lo era negli anni ’90. I motivi sono diversi, a partire dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel dicembre 2001. Da quel momento, la Cina dovette combattere la pirateria più seriamente: stando ai dati di ChinaLabs, la pirateria diminuì dal 68% nel 2005 al 28% nel 2012.

E poi, dove non arrivano le leggi, arriva la tecnologia. Gli anni 2000 furono gli anni dell’esplosione di internet, e la Cina era pronta: come affermava l’allora presidente Jiang Zemin, “internet avrebbe cambiato in modo significativo la Cina, sia nel quotidiano che economicamente, culturalmente e militarmente”. E qua arriviamo a un punto di svolta importante. La Cina si accorse che con il web il mercato del gaming sarebbe radicalmente cambiato, anche perché internet significava e-commerce, cioè la possibilità di comprare qualsiasi console da qualsiasi parte del mondo. Per impedirlo, nel 2000 il governo cinese istituì un ban sulle console, in particolare sulla loro costruzione nella nazione e soprattutto una forte limitazione dell’importazione dall’estero.

cina internet cafè

Ma internet cambiò tutto: in quegli anni in Cina scoppiava il business degli internet cafè, dove i giovani si ritrovavano per giocare online a titoli come StarCraft, Quake 2 e Command & Conquer. Perciò da un lato la Cina impediva l’ingresso alle console di Sony, Nintendo e Microsoft, dall’altro lasciava che i gamer si spostassero su PC. Il perché è presto detto: la Cina è uno dei paesi che più al mondo ha investito sulla diffusione di internet. Già nel 2000, oltre 17 milioni di cinesi avevano accesso alla rete e si contavano oltre 100.000 internet cafè solo nelle principali città. Questi luoghi erano la panacea per il gamer cinese: niente genitori che stressano, niente necessità di spendere per una costosa console. Peccato che le leggi cinesi prevedessero anche l’obbligo per gli internet cafè di registrare l’identità dei clienti, con il rischio di essere sgamati da genitori o insegnanti. Non tardarono a nascere internet cafè abusivi che purtroppo furono luogo di numerosi incidenti, tra incendi dovuti all’incuria e persino casi di omicidi (1, 2, 3, 4). Tutti eventi che finirono per sporcare la già compromessa immagine che la società cinese aveva del mondo videoludico.

I tentativi delle case videoludiche in Cina

1) Sony

Anche se in quegli anni il gaming era solo su PC, Sony, Microsoft e Nintendo provarono a entrare in Cina, con risultati non proprio entusiasmanti. PlayStation 1 non è mai esistita in Cina, mentre nel 2004 Sony provò a importare l’enorme successo di PlayStation 2, riuscendo però a proporla in sole 2 città sotto forma di “sistema computerizzato di intrattenimento”, per evitare lo stigma della parola “console”. Ma se la libreria globale contava oltre 1850 giochi, beh, in Cina ce n’erano solo 17: la maggior parte venne bloccata in quanto ritenuta “malsana”. A non aiutare era anche il prezzo di PS2, circa 240$ quando al mercato nero la si trovava a meno di 180$ e i giochi piratati per pochi spiccioli. Nel 2005 Sony chiuse i suoi uffici in Cina, PlayStation 3 venne cancellata e anche la celebre PSP non è mai arrivata.

2) Microsoft

Ancora peggio è andata a Microsoft. La prima Xbox non arrivò e della successiva Xbox 360, in Cina… arrivò soltanto il Kinect, pensato per gli sviluppatori che volessero sperimentare su PC. Peccato che parliamo di una delle periferiche più fallimentari della storia, dietro soltanto a flop come Virtual Boy e PowerGlove.

xbox 360 kinect

Nintendo

E cosa hanno in comune Virtual Boy e PowerGlove? Esatto, sono entrambi targati Nintendo. Abbiamo assodato che NES e Super Nintendo furono totalmente subissati dai cloni, ma se si parla di Nintendo 64, tenetevi forti perché questa storia ha dell’incredibile.

Affinché un’azienda straniera possa lavorare su larga scala in Cina, questa deve collaborare con aziende locali. Fu così che nacque iQue, una joint venture tra Nintendo e Wei Yen, tecnico taiwanese con cui aveva già collaborato per la realizzazione del co-processore del Nintendo 64, il chip grafico del GameCube e il controller della Wii. Wei Yen è stato anche vice presidente di Silicon Graphics, dove guidò lo sviluppo dello standard OpenGL che sta alla base di molti giochi e applicazioni, fra cui Minecraft, Doom, Photoshop, After Effects, Premiere, Blender e Google Earth. Dalla mente di Wei Yen nacque anche ArtX, compagnia che si occupava di chip grafici e che venne prima acquistata da ATI Technologies e poi fusa con AMD.

Insomma, parliamo di un cervellone, e dalla joint venture con Nintendo nacque iQue Player: e no, quello che vedete qua sotto non è il controller: è la console!

nintendo 64 ique player

Quello che fece Nintendo fu geniale. Visto che in Cina le console classiche da salotto erano proibite, iQue Player nacque 7 anni dopo Nintendo 64: 7 anni in cui l’evoluzione tecnologica permise a Nintendo di condensare la console dentro al controller, oggetto più innocuo agli occhi dei genitori cinesi. Pur essendo più compatto, l’hardware di iQue Player era più potente di Nintendo 64 e non serviva quindi l’Expansion Pak necessario per far girare giochi come Donkey Kong 64 e The Legend of Zelda: Majora’s Mask. Ovviamente iQue Player non leggeva le cartucce date le dimensioni, anche perché Nintendo ben pensò di sfruttarne la compattezza per combattere la pirateria. Dentro c’era una memory card che conteneva 1 gioco per volta: per comprarli bisognava recarsi presso uno dei chioschi autorizzati, dove il rivenditore li installava tramite un apposito POS.

Quello che mi fa impazzire in questa storia è quanto, pur nel suo essere anacronistico, paradossalmente iQue Player fosse un precursore. Dal 2006, iQue creò un sito dove gli utenti potevano comprare, scaricare i giochi e passarli via USB alla console, in un’epoca in cui il download dei giochi non era per niente così diffuso. iQue Player fu un esperimento affascinante, ma che non riuscì a sedurre il pubblico, con solo 8.000/12.000 unità vendute.

iQue ci riprovò negli anni successivi, anche se tutte le console che creò per la Cina furono pesantemente penalizzate da un catalogo limitatissimo. Il Game Boy Advance contava 1.537 giochi, la versione cinese solo 8. Nintendo DS ne contava 2.824, ma in Cina solo 6. Per non parlare del Nintendo 3DS, che se nel mondo contava 1.374 giochi, in Cina ne aveva solo 2.

Come il Giappone ha conquistato la Cina

Prima vi ho detto che la Cina non vede di buon occhio lo straniero, specialmente se questo è il Giappone, con cui ha avuto vari conflitti. Ma come mai la nipponica Nintendo è riuscita in qualche modo a permeare in Cina, mentre Sony e SEGA no? Le motivazioni sono principalmente due: la prima è la strategia di globalizzazione culturale che il Giappone ha attuato negli scorsi decenni. Se oggi il Sol Levante ha un forte ascendente culturale nel mondo, fra anime, manga e videogiochi, così non era prima degli anni ‘80. Per diffondere i propri prodotti e crescere economicamente, il Giappone mise in atto quella che io chiamo “strategia mukokuseki”: in poche parole, cancellare la “giapponesità” per mimetizzarsi meglio nelle altre nazioni.

super smash bros ultimate personaggi

Un esempio calzante è quello di Tokyo Tsushin Kogyo, una delle aziende più famose al mondo. Non la conoscete? Beh, in realtà sì, perché Tokyo Tsushin Kogyo è il nome iniziale di Sony, cambiato proprio perché il fondatore Masaru Ibuka, dopo un viaggio in occidente, si accorse che, per farsi un nome nel mondo, sarebbe stato meglio avere un’identità meno giapponese, più neutra. Nacque così Sony, una parola che suona inglese anche senza esserlo veramente. Ricollegandoci al mondo videoludico, possiamo dire lo stesso per opere come Super Mario e Zelda: tutti famosissimi brand giapponesi ma che della società giapponese hanno poco o niente. I protagonisti di queste storie hanno connotati neutri o ambigui: Super Mario è un idraulico italiano, Link e Zelda sono personaggi che potrebbero stare tranquillamente nelle fiabe occidentali.

Il secondo motivo per cui Nintendo è riuscita a fare breccia nel mercato cinese è la sua forza nel creare un immaginario spensierato e fanciullesco, diretto anche e soprattutto ai più piccoli. Mentre PlayStation e SEGA puntavano a un target più tipicamente adolescenziale, Nintendo conservava una certa aura di innocenza con titoli come Mario, Kirby e Animal Crossing. Agli occhi della Cina, i giochi Nintendo apparivano graziosi e amabili e pertanto meno pericolosi.

nintendo personaggi

Come la Cina censura i videogiochi

Tuttavia, anche Nintendo è finita vittima delle leggi cinesi e qua arriviamo a un altro importante capitolo di questa storia, oserei dire l’elefante nella stanza: la censura dei videogiochi.

Nonostante iQue Player venisse venduto ufficialmente, molti giochi storici del Nintendo 64 non arrivarono in Cina: per esempio il prima citato The Legend of Zelda: Majora’s Mask, che pur essendo sulla confezione, non era disponibile. Nintendo non ha mai spiegato il perché, ma l’ipotesi più papabile è che le autorità cinesi si siano accorte in ritardo che fosse un gioco troppo dark, troppo cupo per i più giovani. Effettivamente Majora’s Mask è il capitolo più oscuro della saga di Zelda, ma perché arrivare addirittura a bannarlo?

Innanzitutto, in occidente il sistema PEGI regola quali videogiochi siano più adatti alle varie fasce d’età. Anche in Cina c’è un sistema equivalente, ma c’è un problema: se il nostro PEGI prevede 6 fasce d’età, il sistema cinese CADPA ne prevede soltanto 3. E già questo è un problema, perché tutti i videogiochi vengono creati sulla base del PEGI, ma quando arrivano in Cina rischiano di non essere incasellabili in queste 3 fasce finendo per essere direttamente scartati.

pegi cadpa

Ma il vero ostacolo è rappresentato da una legge cinese del 1997, nella quale l’Electronic Publications Regulation detta le regole che ogni videogioco deve rispettare affinché venga certificato e venduto in Cina. Ma c’è un problema: queste regole sono volutamente ambigue, non hanno contorni ben delineati e questo dà modo alle autorità di plasmarle come preferiscono. C’è una metafora del professor Perry Link che secondo me rende bene l’idea: “la censura in Cina non è una tigre o un drago. No: è un anaconda gigante arrotolato al lampadario sopra la tua testa: l’anaconda non si muove, non sente il bisogno di essere chiaro sui suoi divieti. Il suo costante messaggio silenzioso è: <<Decidi tu stesso>>”. Questo porta a situazioni in cui alcuni sviluppatori evitano di inserire elementi come il viaggio nel tempo, perché “si dice che il governo non vuole che la gente pensi che ci sia una possibilità di tornare indietro nel tempo e cambiare il regime del partito”.

E per ognuna delle regole di censura, vi posso fare l’esempio di uno o più videogiochi bannati:

  1. Contenuti che danneggiano l’immagine dello stato
    • Devotion bannato per aver fatto ironia accostando Xi Jinping a Winnie the Pooh
  2. Contenuti controversi su tematiche di guerra
    • BattleField 4 bannato perché nel DLC China Rising un ammiraglio cinese di fantasia mirava al golpe del governo
  3. Contenuti osé o moralmente ambigui
    1. Valkyrie Drive bannato per le donne troppo svestite e le tematiche LGBT
  4. Contenuti violenti o grotteschi
    • In World of Warcraft e Fortnite sono stati rimossi elementi come scheletri, ossa e sangue
    • PUBG Mobile in Cina si chiama Game for Peace, gioco dai toni più patriottici in cui gli schizzi di sangue sono sostituiti da lampi di luce, e dove quando si viene uccisi si saluta e scompare nel nulla anziché accasciarsi a terra
  5. Contenuti con argomenti troppo sensibili
    • Plague Inc. bannato per colpa della pandemia
    • In Genshin Impact è proibito scrivere parole come Taiwan, Tibet e Hong Kong
    • Animal Crossing e Super Mario Maker 2 bannati perché alcuni giocatori li usavano per diffondere messaggi pro-Hong Kong
  6. Contenuti troppo competitivi
    • Nella versione cinese di Fortnite si poteva vincere anche per quantità di nemici eliminati o semplicemente rimanendo in vita per i 20 minuti di durata delle partite
    • In Game for Peace i vincitori sono 5 anziché 1

Fra l’altro, fa sorridere che la Cina sia anti-competitività ma dal 2003 riconosca l’eSport come sport ufficiale e dal 2019 il pro-gamer come lavoro ufficiale. Lo stesso Ministero delle Risorse Umane e della Previdenza Sociale incentiva questo lavoro, e mentre assiste a un rallentamento dell’economia più tradizionale sottolinea come lo stipendio da gamer possa arrivare a 3 volte tanto quello medio. Ed ecco che 11 dei 50 pro-gamer con più incassi al mondo sono cinesi, o anche il fatto che il campionato mondiale 2017 di League of Legends sia stato guardato da 106 milioni di spettatori, di cui il 98% in Cina. Ovviamente non sono mancate controversie nel mondo eSport, come il famigerato caso del player Blitzchung che si pronunciò a favore di Hong Kong durante un evento di Hearthstone del 2019. E lì constatammo come la Cina fosse in grado di spostare il mercato, spingendo un gigante quale Activision Blizzard a non prendere le parti di Blitzchung ma anzi, a bannarlo temporaneamente dai propri tornei. E non è né la prima né l’ultima volta che accade qualcosa del genere, con episodi del genere in ambiti come NBA o WWE.

blitzchung hearthstone

La Cina toglie il ban dalle console

Ma torniamo sui videogiochi e mettiamo da parte il mondo PC, perché nel 2014 la Cina tolse ufficialmente il ban sulle console, permettendo a Sony e Microsoft di importare le proprie Xbox e PlayStation. Più arzigogolata è la storia di Nintendo: Wii e Wii U non sono mai arrivate. Al loro posto ci fu una partnership con la piattaforma di streaming iQiyi: i gamer cinesi dovevano così comprarsi una NVIDIA Shield a 200$ e giocare in streaming a solo 6 dei 1.597 giochi del catalogo globale. Un po’ meglio è andata con Nintendo Switch, che a fine 2019 arrivò in collaborazione con Tencent, vendendo da allora più di 1 milione di console. Peccato che la Switch cinese legga solo le cartucce dei giochi certificati dal governo, che a oggi sono soltanto 13 e non comprendono best-seller come Breath of the Wild.

Ma dove non c’è mercato libero c’è contrabbando e in Cina accade alla luce del sole. A partire dai negozi di Hong Kong, da cui i gamer cinesi acquistano console prive di blocco regionale e quindi in grado di far girare qualsiasi gioco, anche quelli bloccati in Cina. Per non parlare dei vari e-commerce come Aliexpress, Jingdong e Taobao, costringendo il governo a intervenire e bloccare questo contrabbando. E si creano così fenomeni come quello di It Takes Two, che ha vinto il premio cinese Bilibili Game Award nel 2021… pur non essendo rilasciato ufficialmente in Cina. Il gioco è stato talmente apprezzato in Cina da vendere, secondo i suoi creatori, più di 1 milione di copie, rendendo di fatto la Cina il suo mercato più grande.

Il mistero di Steam in Cina

Abbiamo ripercorso la storia del mercato videoludico in Cina, fra controversie, storture e ipocrisie. Per quanto il ban sulle console non esista più, è il gaming su PC che continua a essere il vero protagonista in Cina. Anche perché, la volete sapere un’altra ipocrisia? Se il mondo PC è così forte è anche perché i videogiocatori in Cina sono sempre stati liberi di usare Steam. In una nazione che blocca Google, YouTube, Facebook, Instagram, Whatsapp, Netflix, Twitter, Wikipedia, Reddit, Twitch (per dirne solo alcuni), Steam invece funzionava. Seppur senza Community e Workshop, impedendo così agli utenti di scaricare mod che avrebbero potuto turbare il governo. Circa il 24% di tutti gli utenti Steam sono cinesi ed è la Cina la nazione che scarica più giochi al mondo ogni mese, anche titoli teoricamente censuratissimi come GTA V.

Ma perché Steam, pur essendo anche una piattaforma americana, non è bloccato? Beh, forse perché Valve (creatore di Steam) ha collaborato con la cinese Perfect World per creare uno Steam cinese, dove per iscriversi serva la carta d’identità e dove trovare poco più di 100 giochi anziché gli oltre 110.000 sullo Steam globale. E indovinate un po’? Da quando lo Steam cinese è stato ufficialmente acceso, il Great Firewall cinese si è ricordato di bloccare lo Steam globale.

steam cinese

Il problema del business free-to-play

Nel frattempo, il gaming su PC in Cina ha raggiunto cifre elevatissime: le stime parlano di oltre 335 milioni di giocatori entro il 2025, per un fatturato attorno ai 14 miliardi di dollari. Conscia di quello che aveva fatto con la pirateria negli anni ’90, la Cina è andata all-in sui giochi free-to-play, cioè giochi gratis ergo impossibili da piratare ma che spingono il giocatore a spendere in altro modo, da semplici skin per il personaggio fino al pay-to-win per avanzare velocemente nel gioco. Come afferma l’ex sviluppatore SEGA Muneyuki Yokoyama, “Le entrate pubblicitarie medie che puoi generare in Giappone da un gioco sono 100 volte superiori a quelle che puoi ottenere in Cina. Per sopravvivere, devi convincere i tuoi giocatori a pagare per ciò che in realtà non dovrebbero pagare”.

È un modello di business controverso, la cui nascita coincide con la nascita degli smartphone: dal 2018, più del 50% del gaming in Cina avviene su telefono. Ed è fisiologico: chiunque ne ha uno, specialmente in Cina dove il PC non hai mai preso piede al di fuori degli uffici. D’altronde perché spendere centinaia se non migliaia di dollari per una console o un PC da gaming, quando con quella cifra mi prendo uno smartphone, che oltre a darmi migliaia di giochi gratuiti in portabilità è anche una fotocamera, un notebook, un navigatore e tanto altro?

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Peccato che questa iper-democratizzazione stia cambiando i connotati del mondo videoludico. Per carità, giochi del calibro di Breath of the Wild, Shadow of the Colossus, Bloodborne, The Last of Us, Half-Life, Cuphead e Hollow Knight continuano a esistere e a vendere, ma quando i grossi publisher vedono che gran parte degli incassi arriva dai titoli free-to-play, la situazione non può che mutare. Basti vedere Konami: nonostante abbia ucciso importanti saghe come Metal Gear e PES e si sia data a gacha e giochi mobile, continua comunque a crescere in borsa. E non voglio certo dire che i free-to-play siano tutta farina del sacco cinese, anzi, ma se si confrontano il PIL pro capite di Cina (9.580$), Europa (35.79$) e Stati Uniti (62.869$), capiamo perché la Cina spinga su un modello videoludico dove non vi sia una barriera economica d’ingresso. Un modello che però fa sorgere due problemi: quello dei giochi senza fondo e quello delle micro-transazioni. Se non sapete di cosa sto parlando, se ne potrebbe parlare a lungo ma vi consiglio direttamente di recuperare questo video di WesaChannel.

Se si parla di micro-transazioni e loot box si crea un corto circuito, perché in Cina il gioco d’azzardo è illegale, eccezion fatta per la regione ad amministrazione speciale del Macao, praticamente la Las Vegas cinese. Per questo, nel 2017 la Cina ha approvato una legge che prevede che le loot box non possano essere acquistate né con moneta reale né virtuale, che non possano contenere oggetti esclusivi e che vi sia indicata la probabilità di vittoria. Per esempio, in Fortnite non era possibile comprare i V-Buck ma era il gioco stesso a darne un tot a tutti ogni settimana, il Battle Pass era gratuito e non esisteva il programma “Supporta un creatore” per impedire la possibilità di monetizzare su un pubblico tendenzialmente molto giovane. Ah, e ne parla al passato perché Fortnite ha chiuso i battenti in Cina proprio per questi motivi.

Come la Cina protegge i bambini

E qua arriviamo all’altra annosa questione quando si parla di Cina e videogiochi: i bambini. In un mondo in cui spopolano titoli come Fortnite, Minecraft e Roblox, progettati per tenere incollati allo schermo il più possibile, è lecito interrogarsi sull’impatto che possano avere sui più piccoli. Ma se l’occidente non sta facendo molto se non quasi nulla dal punto di vista tutelativo, in oriente la situazione è ben diversa. Certo, l’OMS ha inserito la dipendenza da videogiochi fra le malattie mentali nel 2018, ma la Cina l’aveva già deciso nel 2008. Come recita l’agenzia di stampa cinese, “La tutela della salute fisica e mentale dei minori è legata agli interessi vitali delle persone, e riguarda la coltivazione delle giovani generazioni nell’era del ringiovanimento nazionale”.

Già dal 2005 la Cina obbligò l’inserimento nei giochi dell’autenticazione tramite carta d’identità, oltre a disincentivi visivi e limiti di tempo: per esempio, se un minore giocava più di tre ore consecutive, il gioco cancellava metà dei soldi in-game guadagnati in quelle 3 ore, cancellandoli del tutto superate le 5 ore. Limiti sempre più stringenti con il governo Xi Jinping, che nel 2021 ha deciso di consentire ai minori solo 1 ora al giorno dalle 20 alle 21 e soltanto durante weekend e festivi. E per impedire che andassero a guardare altri giocare in streaming, il governo ha pure messo un blocco ai minori di 16 anni per l’iscrizione alle piattaforme di live streaming.

videogiochi bambini cina

La lotta morale di Xi Jinping

Ma cos’è cambiato? Come mai la Cina è passata da incentivare il mondo videoludico, seppur a modo suo, a decidere di bloccarlo? Come fanno notare gli analisti di settore, la Cina sembra star tornando alle sue origini, riprendendo quella dottrina maoista secondo cui il vero obiettivo è la “prosperità comune”: ridurre la ricchezza nelle mani di pochi per ridistribuirla alla popolazione. Lo si nota da come il governo Jinping sta sempre più limitando settori dove prima le aziende cinesi erano libere di crescere liberamente, in modo che diventassero colossi che potessero conquistare i mercati esteri, proprio come nel caso di Tencent e NetEase. Per esempio nel 2018, quando le autorità sospesero per quasi 1 anno la pubblicazione di videogiochi, una mossa che per molti fu una prova di forza contro Tencent e NetEase, per dimostrare loro che per quanto fossero giganti multimiliardari dovessero comunque rendere di conto al governo.

Se la Cina oggi è una delle più grandi potenze mondiali lo si deve in buona parte a quel “capitalismo con caratteristiche cinesi” dell’era Xiaoping: perché Xi Jinping ha deciso di invertire la rotta? Qua il discorso si fa complesso: nonostante venga attribuito a Xiaoping, le fondamenta del successo cinese derivano dalla creazione delle Zone Economiche Speciali a opera di Xi Zhongxun, nientepopodimeno che il padre di Xi Jinping. Peccato che Deng Xiaoping abbia a lungo perseguitato personalità come la sua, colpevoli di aver tentato di riformare un paese dove la politica doveva rimanere nelle mani di pochissimi. In Cina non è il mercato a stabilire dove vadano impiegate le risorse, bensì chi sta al potere, perciò non c’è da meravigliarsi che il governo degli anni ‘90 e 2000 fosse uno dei più corrotti al mondo. Agli occhi di Xi Jinping, quindi, è a suo padre che va il merito di aver riformato economicamente la Cina, con Deng Xiaoping che non solo se ne sarebbe preso il merito, ma avrebbe inquinato l’anima socialista della Cina accentrando le ricchezze nelle mani di pochi.

shenzhen prima dopo

Se prima la lotta ai videogiochi serviva in buona parte per favorire la crescita nazionale e frenare i produttori esteri, adesso ha assunto connotati più morali. Xi Jinping sembra voler frenare la corsa economica dei governi precedenti, una corsa che avrebbe portato anche a un mondo videoludico problematico, con giochi senza fondo e micro-transazioni imperanti e che minerebbero l’integrità dei più giovani. Senza contare l’aspetto legato alla censura: nel 2021 è circolato un promemoria governativo in cui i videogiochi non sarebbero “puro intrattenimento apolitico”, bensì una forma d’arte che deve evidenziare “un corretto insieme di valori e un’accurata comprensione della storia e della cultura cinese”. Secondo le autorità, “alcuni giochi hanno confini morali sfocati: i giocatori possono scegliere di essere buoni o cattivi; non pensiamo che i giochi dovrebbero dare ai giocatori questa scelta, e questo deve essere modificato”.

Ma il problema è sempre il solito: chi decide chi sono i buoni e chi i cattivi? Nel mentre, la Cina scopre che i videogiochi possono essere anche propaganda: per esempio, lo studio di sviluppo cinese WuWeiZhengTu ha sviluppato un FPS basato sulla Guerra di Corea, in cui i giocatori vestono i panni dell’esercito volontario cinese e Stati Uniti e Corea del Sud sono i nemici da sconfiggere. Un altro esempio di propaganda è Homeland Dream, sviluppato da Tencent con il giornale di stato People’s Daily: una sorta di SimCity in cui far crescere zone della Cina (tra cui Hong Kong e Taiwan), con tanto di obiettivi come “miracolo della riduzione della povertà” o la possibilità di avviare la Belt and Road Initiative per aumentare l’efficienza degli edifici.

Come la Cina influenza l’occidente

Ci troviamo dinanzi a un panorama a dir poco complicato: pur con queste problematicità, in Cina c’è il 25% dei videogiocatori mondiali. Un mercato che fa gola a qualsiasi azienda videoludica, che però per lavorare in Cina deve collaborare con le aziende cinesi, arricchendole senza troppi sforzi e permettendo loro di prendere posto sul podio dell’industria. NetEase ha partecipazioni in Bungie e Quantic Dream, ha collaborato con Blizzard per la creazione di Diablo Immortal, ha portato in Cina titoli come Overwatch e Minecraft e ha le licenze per creare giochi mobile a tema Signore degli Anelli, Marvel ed Harry Potter. Non parliamo di Tencent, cioè la più grande azienda videoludica al mondo: possiede 5 team, fra cui quello di PUBG Mobile, Call of Duty Mobile, Arena of Valor e Pokémon Unite. Senza contare Riot Game, cioè i creatori di League of Legends, Runeterra, Valorant e Teamfight Tactics. Tencent è anche azionista di maggioranza in Supercell (Clash of Clans, Clash Royal e Brawl Stars) e ha partecipazioni in altre 31 aziende, fra cui Epic Games, Activision Blizzard, Ubisoft, Roblox, From Software, Platinum Games, Remedy, Frontier Developments, Spike Chunsoft, Paradox, Bohemia e Discord.

tencent netease

Per quanto il videogioco nasca come pura esperienza arcade, fuori dalla Cina il medium videoludico è stato lasciato libero di evolversi creativamente, dimostrando che ci fosse spazio e richiesta anche di opere dove la componente ludica fosse accompagnata da una narrazione di spessore, a volte persino superiore come qualità o quantità all’aspetto ludico. Come ogni forma di creatività, il videogioco deve essere libero di raccontare ogni aspetto del mondo, anche quelli più sporchi e negativi, in un contesto odierno dove i videogiochi possono avere anche un impatto cerebrale oltre che puramente intrattenente. Ma come scritto nel capitolo sulla censura, le regole da rispettare sono molte e vaghe e il rischio è che alla lunga ciò possa influenzare le scelte artistiche delle aziende estere che, per non essere tagliate fuori da un mercato così grande, evitino in partenza argomenti che potrebbero indispettire le autorità cinesi.

Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che anche in occidente e sull’asse nippo-coreano ci sono aziende che non brillano in quanto a originalità e spessore narrativo. Ma non è questo il punto: qua si parla di libertà creativa. In Europa, in Giappone, negli Stati Uniti c’è spazio sia per il blockbuster fatto per piacere a tutti che per il gioco indie più ricercato. Al contrario, sotto il profilo creativo la produzione videoludica della Cina è talmente innocua e in linea con gli standard che nessun governo potrebbe avvertirla come pericolosa.

E qua ci ricolleghiamo a un altro problema non di poco conto, cioè la scarsa originalità e la povertà artistica dei videogiochi della Cina, una nazione dove storicamente le materie artistiche e umanistiche vengono soppresse in favore di quelle più scientifiche. Non è un caso se dalla Cina escono videogiochi che non sono altro che una derivazione di videogiochi già esistenti: d’altronde, se sei un governo autoritario che tende a sopprimere la creatività, cosa c’è di meglio se non incentivare la clonazione di opere altrui ed evitare così lo sviluppo di creativi, di liberi pensatori? Ma di questo argomento ho parlato in un video-editoriale apposito intitolato “Perché la Cina copia?”.

I videogiochi indie in Cina

E arriviamo così all’ultimo capitolo di questo video, quello sul panorama indie cinese. Un argomento che si è riaperto dopo i trailer di Black Myth: Wukong: pur nascendo da un team di sole 30 persone, ha acceso gli animi grazie a un’estetica e un feeling che non sembra avere niente da invidiare ai tripla A di Sekir-iana memoria.

Fra anni ‘90 e anni 2000 gli studi indie erano pressoché inesistenti, ma in questi anni qualcosa si è mosso: lo dimostrano i fondi economici versati dai big cinesi per supportare studi indipendenti che potrebbero portare una certa dose di qualità sul tavolo (1, 2, 3). Per esempio, dall’ACE Program di Tencent è saltato fuori un titolo come Candleman, un platform 3D nei panni di una candela animata che si sposta in ambientazioni fiabesche e dove la sfida è dosare l’illuminazione nelle zone buie pena la consumazione della candela e quindi la perdita di una vita.

Un gioco molto apprezzato anche in occidente, persino da Phil Spencer, al punto da essere diventato uno dei giochi del programma di supporto di Microsoft per la pubblicazione di giochi indie su PC e Xbox, a dimostrazione che anche dalla Cina possa saltar fuori qualcosa di identitario.

In tal senso, Steam aveva dato una forte spinta al mercato indie cinese, permettendo agli sviluppatori di proporre le proprie creazioni a una platea globale.

Penso per esempio a Dyson Sphere Program, un factory build sci-fi dove ricostruire la società su vari pianeti. Oppure Tale of Immortal, un sandbox open world basato interamente sulla mitologia cinese. Ma potrei citare anche The Rewinder, un’avventura che prende a pieni mani dalla cultura della Cina per gli amanti della pixel art. Oppure Eastern Exorcist, RPG dove combattere demoni a colpi di spada in scenari e ambientazioni particolarmente evocative. O anche Amazing Cultivation Simulator, un bizzarro gestionale dove creare una setta a base di taoismo, buddismo e feng shui. Per non parlare di Detention, apprezzatissimo horror atmosferico ambientato nel regime di Taiwan degli anni ‘60. Degno di menzione è anche Eastward, sfoggiato da Nintendo all’Indie Show Case 2021 come un’affascinante avventura col feeling dei migliori Zelda in 2D. Ultimo ma non ultimo Chinese Parents, gioco che insegna quanto possa essere dura la vita di un bambino nato in Cina e il suo rapporto con genitori spesso molto pretenziosi.

In questi anni non si può dire che la scena indie cinese sia stata ferma: purtroppo episodi come quello prima citato, quando nel 2018 il governo sospese per quasi 1 anno l’approvazione di nuovi videogiochi, non creano un terreno fertile per i piccoli studi di sviluppo. Terreno che non è fertile nemmeno a cose normali: immaginate di aver sviluppato il vostro gioco e doverlo sottoporre alle autorità cinesi. Solamente per fare richiesta servono circa 1.400$, e non è detto che la richiesta vada a buon fine. E 1.400$ sono per una sola piattaforma: se volete che il gioco esca per esempio su Switch e PC, allora le licenze sono 2 e quindi si sale a 2.800$. Ah, il gioco dev’essere completo all’80%, perciò rischiate di spendere per creare un gioco che potrebbe non essere approvato. Prendete il tutto e mischiatelo con una burocrazia estrema, con documenti di oltre 60 pagine da compilare dove spiegare tutto il gioco, gameplay, narrativa, e tutti i personaggi, persino animali di passaggio che stanno sullo sfondo. Senza contare tutto il discorso sulla censura su cui non mi starò a ripetere.

Inutile dire che si è creato un mercato nero delle licenze, dove spendere cifre altissime fino a 30.000$ per riceverle in maniera illegittima, ma col rischio di essere beccati e censurati. Ma c’è una categoria di gioco per cui non è ufficialmente necessaria alcuna licenza: indovinate quale? Esatto, i giochi free-to-play, a patto che non abbiano micro-transazioni, e dove quindi la monetizzazione deve giocoforza passare dalle simpaticissime pubblicità pop-up. Sotto questo punto di vista, il fatto che Steam funzionasse in Cina era una salvezza, ma il suo ban in favore di uno Steam controllato dal governo ha generato malcontento. Certo, nulla vieta agli sviluppatori cinesi di creare giochi soltanto per i mercati esteri, ma non è una soluzione di facile attuazione: non è detto che un gioco che trae ispirazione dai gusti e dalla cultura cinese riesca a trovare riscontrare con il gusto occidentale o nipponico. Senza contare l’impossibilità di usare strumenti bannati in Cina come Discord, piattaforma molto utile per mettere in contatto sviluppatori e giocatori, o la difficoltà di caricare i propri giochi sullo Steam americano o i trailer su YouTube a causa di VPN che non sempre funzionano come dovrebbero. Non va tanto meglio all’editoria videoludica: per esempio, il magazine Ultra Console Game è stato sospeso a tempo indeterminato perché il governo non vuole che dia copertura a giochi non rilasciati in Cina.

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