Il ban sui videogiochi della Cina mette in ginocchio il mercato

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Parlare di videogiochi in Cina è sempre qualcosa di altamente intricato e complesso e a cui a breve dedicherò un video editoriale. La nazione rappresenta il più grande mercato videoludico del mondo, con più di 700 milioni di videogiocatori e incassi che hanno superato i 278 miliardi di dollari nel 2020. Essere un pro gamer in Cina significa vedere la propria posizione riconosciuta ufficialmente come lavoro. Sempre in Cina troviamo due realtà come NetEase e Tencent, cioè due delle più grandi società che operano nell’ambito videoludico su scala globale, sia per numeri che per incassi. Nonostante ciò, nel corso dei decenni la Cina è forse la nazione che con più forza ha ostacolato il naturale corso del mercato del videogame. Che sia per motivi culturali, morali, sociali o economici, le autorità cinesi hanno spesso e volentieri fatto ostruzionismo.

La Cina prosegue nella sua lotta alla “giungla videoludica”, ma non senza problemi

Uno dei modi con cui la Cina controlla il flusso dei videogiochi che entrano nella propria nazione è l’obbligo di licenza. Per poter pubblicare ufficialmente un gioco in Cina, è necessario che questo passi il vaglio delle autorità preposte, in particolare quello del National Press and Publication Administration (NPPA). In caso contrario, per il titolo viene richiesta una revisione oppure viene direttamente respinto al mittente. E con “revisione” si intende la modifica del gioco per far sì che questo rispetti le regole imposte dal governo. Affinché un gioco venga pubblicato, è necessario che non tratti argomenti sensibili o controversi, che non lega la figura dello stato e la stabilità sociale, che non sia eccessivamente competitivo e violento.

Nel corso degli anni, ci sono stati dei rallentamenti più o meno prolungati che hanno sostanzialmente bloccato la pubblicazioni di nuovi videogiochi. Per esempio, nel 2018 la fornitura delle licenze venne sospesa per circa nove mesi a causa di una riorganizzazione della State Administration of Radio and Television (SART), l’ente precedentemente incaricato di gestire il tutto. Dopo tre anni, è successo lo stesso lo scorso luglio, con l’NPPA che sta tuttora fermando la creazione di nuove licenze. Normalmente, le licenze fornite erano per circa 80/100 giochi mensili e venivano pubblicate alla fine di ogni mese.

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Crescono le preoccupazioni della Cina verso la dipendenza videoludica

La sensazione è che questo blocco possa proseguire nel corso di quasi tutto il 2022, con la speranza da parte delle compagnie videoludiche che la normalità venga ripristinata il prima possibile. Questa situazione sta pesantemente colpendo l’industria: circa 14.000 aziende legate al mondo dei videogiochi, perlopiù realtà piccole, si sono trovate costrette a chiudere i battenti negli ultimi mesi. Un numero considerevole, se si considerano che già nel 2020 a sospendere le proprie attività erano state altre 18.000 aziende. Ma è un problema che sta coinvolgendo anche colossi come ByteDance, Baidu e Tanwan Games, con tagli al personale nelle proprie divisioni videoludiche.

Anche le succitate Tencent e NetEase non stanno a guardare, aumentando i rispettivi investimenti fuori dai confini per arginare le perdite. Per esempio, Tencent sta investendo per allargare TiMi Studio Group, creatore di giochi come PUGB Mobile, Call of Duty Mobile, Arena of Valor e Pokémon Unite. Con sede a Singapore, la sussidiaria di Tencent prevede di aprire un nuovo studio all’estero dopo quelli a Los Angeles, Seattle e Montreal.

Allo stato attuale, l’NPPA non ha spiegato il perché di questa sospensione e non ha fornito indicazioni su quando potrebbe essere rimossa. Ma gli addetti ai lavori vedono nella rinnovata preoccupazione del governo di Xi Jinping verso la dipendenza videoludica la principale motivazione. Sin da quando esiste questa forma di intrattenimento, la Cina ha sollevato preoccupazioni sull’influenza che questa avrebbe sulla psiche dei più giovani. Ne è nata una lotta tale da spingere persino giganti come Epic Games a ritirare Fornite dalla Cina, una nazione dove il proprio business era diventato impraticabile.

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