Se siete fra i nostri lettori abituali, o comunque se bazzicate il mondo della tecnologia, sono abbastanza sicuro che almeno una volta vi siate posti la domanda che intitola questo articolo. Perché la Cina copia? Quante volte vi è capitato di guardare un gadget prodotto da una delle innumerevoli aziende asiatiche e chiedervi: com’è possibile che esista? Un dubbio che lambisce diverse prospettive, a partire da quella etica, passando per quella legale e finendo nel mondo politico e quello socio/economico. È un argomento spinoso, specialmente per noi di GizChina.it che quotidianamente trattiamo di compagnie che sono solite “ispirarsi” a prodotti altrui. Ma proprio per la sua delicatezza, è una domanda che trova risposta sotto molteplici forme. Proprio per questo, ho deciso di dividere questo editoriale in tre macro-capitoli, per quanto tutti e tre si interconnettano fra di loro.
Indice
La Cina copia tutto e tutti? Facciamo chiarezza
1) Motivo politico
Shanzhai fantastici e dove trovarli
Per spiegarvi perché la Cina copia parto dal mondo politico e per farlo vi parlo brevemente del libro Water Margin, un classico della letteratura cinese. Un po’ come i nostri Promessi Sposi. In questo romanzo del 14° secolo viene narrata la storia di una banda di 108 fuorilegge, praticamente dei Robin Hood che volevano combattere la corruzione della dinastia Song. Un’impresa in cui non riusciranno, con le dinastie di imperatori che si protrarranno in Cina fino ai primi del 1900, quando ad avere la meglio saranno poi le truppe di Mao Zedong, ma questa è un’altra storia. Il motivo per cui cito questo libro è perché al suo interno compare per la prima volta la parola “shanzhai“, usata per indicare le fortezze di montagna, costruite ai confini dell’impero cinese, che i rivoltosi usavano come accampamenti. Con gli anni questa parola si è evoluta, ma ha mantenuto la sua accezione originale. Oggi, uno “shanzhai” è qualcosa che va contro il mercato mainstream, un atto di ribellione che, proprio come Robin Hood, corre lungo una linea molto sottile fra legalità e illegalità.
Per capire come mai la Cina copia c’è di mezzo una differenza sociale fra occidente e oriente che non può essere sottovalutata. Sin dalla sua nascita, il Partito Comunista Cinese trova radici in un’ideologia socialista basata su un’equità assoluta che puntava ad annullare le disuguaglianze. Gli anni ’90 furono quelli dell’esplosione della telefonia che portò un cellulare nelle tasche di milioni di persone nel mondo. Oggi diamo per scontato che tutti ne abbiano uno, ma nei ’90 era ancora un lusso per i paesi emergenti. In Cina bastava farsi un giro per i negozi di Huaqiangbei per trovare scaffali pieni di “shanzhai”, cioè contraffazioni dei marchi più voga di allora. Prendiamo ad esempio Nokia N73, uno dei più venduti di sempre. Il suo prezzo di lancio era circa 400€, ma la sua copia in Cina costava circa 60€. I motivi di un prezzo così basso sono presto detti: niente ricerca e sviluppo, niente marketing, niente assistenza. Alla fine conta soltanto il costo intrinseco dell’oggetto, che influisce poco su quello finale. Per dire, un iPhone 12 costa 999€ a fronte di un costo dei componenti di circa 400€.
Un comportamento senza dubbio poco etico nonché poco legale nei confronti dei produttori telefonici colpiti. Ma c’è anche chi obietta, sulla base dell’ideologia di cui sopra, che la creazione di questi cloni low-cost non fosse un vero e proprio danno per la Nokia di turno. Per i prezzi che aveva, toppo alti per i mercati emergenti, non avrebbe potuto comunque vendere. E quindi la bilancia vede da un lato un danno economico forse molto contenuto per le multinazionali, dall’altro la possibilità di dare in mano un strumento essenziale come il telefono ai meno abbienti. Una scorciatoia che ha permesso alla Cina di crescere così in fretta e mettersi in pari col resto del mondo. Pensate che nella Cina degli anni ’90 vivevano più di 700 milioni di persone, cioè 2/3 della popolazione: oggi quel numero si è ridotto a solo lo 0,5% della popolazione.
La Cina protegge il diritto d’autore?
Sempre sotto il fronte politico, poi, parlare di tutela della proprietà intellettuale è alquanto complesso. Nella Cina imperiale, le invenzioni dei singoli erano utili all’avanzamento di tutti, seguendo la dottrina del Confucianesimo secondo cui lo sviluppo morale era possibile imitando gli insegnamenti del passato. Fu solo con l’ultima dinastia Qing che venne introdotta una primissima legge per il diritto d’autore, ma con la fine delle dinastie e la salita al governo del Partito di Mao Zedong venne cancellata. Nacque così una Repubblica Popolare Cinese che inizialmente si rifece ai concetti più tipicamente sovietici, cioè che le innovazioni debbano essere patrimonio della nazione, con al massimo un premio in denaro per l’inventore. Ma sarà fra anni ’80 e ’90, in particolare con l’ingresso nel World Intellectual Property Organization, che nasceranno le prime vere leggi per il diritto d’autore della Cina moderna.
Nonostante quello che si potrebbe pensare, in Cina c’è una tutela della proprietà intellettuale e infatti ci sono state diverse cause vinte dalle aziende colpite da contraffazione. Fra l’altro, è interessante notare che ogni anno, il 15 marzo, si tiene il World Consumer Rights Day, una festività divenuta un evento mediatico molto importante in Cina sotto forma di “315 Show“. Immaginate un programma in prima serata di 2 ore sulla TV statale, guardato da centinaia di milioni di persone, in cui vengono criticati tutti gli aspetti negativi dei brand più importanti. E non soltanto quelli esteri, persino gli stessi brand cinesi. E fra questi aspetti spesso e volentieri viene osteggiata proprio l’attitudine al copiare.
2) Motivo economico
L’ascesa della Cina sotto Deng Xiaoping
Ma quindi, se la politica cinese odierna tutela maggiormente il diritto d’autore, come mai ancora oggi la Cina viene accusata di copiare? Passiamo così al secondo motivo, e per parlarne dobbiamo tornare fra anni ’70 e ’80, quando Deng Xiaoping era a capo di una Cina che cercava una crescita commerciale e tecnologica necessaria per mettersi in pari col resto del mondo. Mentre le vicine Sud Corea, Taiwan, Hong Kong e Singapore crescevano, forti di una maggiore apertura all’occidente, la Cina pagava ancora i lunghi anni di chiusura. Di questa situazione ve ne ho già parlato in nell’editoriale “Perché gli smartphone vengono tutti dalla Cina?“. Quindi, il governo decise di attuare un piano molto furbo: anziché aprire tutta la Cina alle aziende estere, decise di farlo solo in alcune città, le cosiddette Zone Economiche Speciali, dove sarebbe nata un’economia più di stampo global. In questo modo, Xiaoping non avrebbe scontentato il partito, dato che soltanto in queste città si sarebbe operato così e il resto della Cina sarebbe rimasto a controllo statale. Senza contare che permettere l’ingresso alle aziende estere solo in queste poche città avrebbe impedito che l’influenza occidentale si potesse diffondere in tutta la Cina ed eventualmente mettere a rischio la dottrina comunista.
Un piano ben congeniato, ma rimaneva un problema: nonostante la caparbietà della Cina, l’occidente era comunque avanti di generazioni. Colossi come Intel e Texas Instruments negli Stati Uniti o Nokia ed Ericsson in Europa operavano sul mercato già da decenni prima. Anche per questo, le prime compagnie tecnologiche cinesi attuarono comportamenti piuttosto borderline, cioè copiare le proprietà altrui per accelerare l’evoluzione della Cina.
L’esempio più plateale è quello di Huawei, un’azienda che nacque a fine anni ’80 e che aiutò la Cina a creare una rete telefonica nazionale. Per farlo, servivano componenti necessari come gli switch telefonici ma che all’epoca venivano costruiti soltanto da aziende estere. Il business iniziale di Huawei fu proprio quello di importare questi switch, rivenderli alle aziende locali e nel frattempo fare ingegneria inversa per capire come replicarli. Ed infatti, dopo qualche anno, Huawei inizierà a fabbricarseli da sola, ricevendo il pieno sostegno da parte di un governo che proprio in quegli anni avviò una politica di sostegno ai produttori telefonici nazionali, limitando l’accesso a quelli stranieri. In poche parole, la Cina approfittò dell’entusiasmo delle aziende estere che volevano investire in un mercato promettente come il loro, sfruttandole quanto bastava per rendersi autonoma il prima possibile.
Un altro caso eclatante è quello di BBK, il colosso cinese che negli anni ha dato vita a realtà oggi celebri come OPPO, vivo e OnePlus. Se il fondatore Duan Yongping riuscì ad avere i fondi economici per creare BBK fu grazie al successo raggiunto anni prima alla guida di Subor Electronics, l’azienda che creò i primi cloni Nintendo. E anche in questo caso, ve ne ho spiegato la storia nel dettaglio nell’editoriale “La storia di BBK: chi si nasconde dietro OnePlus, OPPO e vivo?“. Sostanzialmente Subor approfittò dell’assenza di Nintendo sul mercato cinese per creare “shanzhai” low-cost contro cui Nintendo non poté fare niente. Né a livello giuridico, visto che allora le leggi internazionali sul copyright in Cina erano ancora claudicanti, né a livello commerciale: quei cloni costavano così poco che lanciare la più costosa console Nintendo sarebbe stato un flop assicurato.
3) Motivo culturale
Arriviamo così al terzo ed ultimo punto del perché la Cina copia, quello più affascinante e controverso, ovvero il motivo culturale. Quando si parla della Cina, si parla di una nazione che se oggi è al secondo posto fra le potenze del mondo deve molto a quel “socialismo con caratteristiche cinesi” fondato da Deng Xiaoping fra anni ’70 e ’80. Erano anni in cui la Cina non si faceva scrupoli nell’avvicinare le aziende estere per carpirne i segreti, un modo di agire che inevitabilmente è entrato nel tessuto sociale della popolazione. E poi, con la Cina non parliamo soltanto di una nazione socialista, ma anche e soprattutto di una società autoritaria. Governata dallo stesso Partito Comunista Cinese da ormai 72 anni, negli anni ha prontamente represso i tentativi di attivismo della popolazione. Basti pensare alle proteste di piazza Tienanmen, frutto di un malcontento giovanile a causa dell’impossibilità di partecipare in politica. La repressione fu brutale, con migliaia di morti fra civili e soldati, una brutta macchia che il Partito ha provato a cancellare negli anni. Se oggi provate a cercare informazioni sui nostri motori di ricerca troverete tutto, ma su quelli cinesi non troverete nulla, dato la censura blocca tutti quei risultati che potrebbero rimandare a piazza Tienanmen. Persino chiavi di ricerca apparentemente casuale come “64“, “6-4“, “63+1“, “65-1” e “35 maggio“, tutte numerazioni che riportano al 4 giugno 1989, cioè la data delle proteste, per capire la follia della censura cinese.
Insomma, nel DNA della Cina non esiste la volontà di creare liberi pensatori, un rischio troppo alto per la stabilità della società (secondo il Partito). Proprio per questo, negli anni ’80/’90 c’era un proverbio insegnato ai bambini che recitava così: “Studia bene matematica, fisica e chimica e sarai apposto, ovunque tu sia nel mondo“. Un proverbio apparentemente come tanti altri, ma che in realtà cela un obiettivo ben specifico: coltivare una generazione di giovani orientati alle scienze anziché alle materie umanistiche. Come si suol dire, prendere due piccioni con una fava: ottenere quello stuolo di scienziati necessari per l’avanzamento tecnologico di cui la Cina aveva bisogno e allo stesso tempo disincentivare percorsi quali filosofia, sociologia e giornalismo. Coltivare questa forma mentis, poi, ha fatto sì che nella mente della popolazione venisse meno quel senso di immoralità che in occidente viene fuori quando ci si trova di fronte ad un clone.
Tutta questione di calligrafia
Ma per spiegare questa differenza culturale dobbiamo andare ancora più indietro nel tempo, ne primi secoli DC, quando la calligrafia era la corrente artistica che più faceva amare la Cina in tutto il mondo. Ma c’era chi, già all’epoca, proponeva una modernizzazione delle arti, in modo da portare equità culturale fra Cina ed occidente. In antichità, la cultura artistica cinese si incentrò per molto tempo su manufatti e rappresentazioni pittoriche di stampo calligrafico o al più religioso. Fu soltanto con la caduta degli imperatori e la rivoluzione Xinhai nei primi del ‘900 che la cultura dell’arte in Cina si avvicinò a quella occidentale. Ma in antichità, quella modernizzazione era un cambiamento inaccettabile per i maestri, secondo cui il modo corretto di agire era imparare a memoria gli insegnamenti ricevuti. Se il maestro ti mostra come dipingere un ruscello, tu devi dipingerlo più uguale possibile, pena il fallimento didattico e il disonore di aver mancato di rispetto all’autorità. Un modo di pensare che preclude qualsiasi guizzo creativo: c’è persino un villaggio in Cina, di nome Dafen, in cui vive una comunità di pittori dediti a realizzare repliche dei più grandi dipinti della storia da rivendere nel resto del mondo.
Questo modus operandi lo ritroviamo anche e soprattutto oggi nel GaoKao, cioè quelli che in Cina sono i nostri esami di maturità ma elevati alla quintupla in quanto a pressione e stress mentale. Altro che notte prima degli esami: dal punteggio ottenuto dipende l’ingresso o meno nelle università cinesi. Durante i giorni d’esame, gli studenti non possono uscire dalla scuola, sorvegliata da forze dell’ordine e metal detector, e chi copia rischia addirittura il carcere. Un percorso scolastico che non incentiva la creatività: basta una virgola fuori posto per rischiare di giocarsi l’ingresso in università. L’unica cosa che conta è il punteggio, disincentivando gli studenti a coltivare tratti caratteriali e talenti che non rientrino nell’esame. Come un po’ tutti i paesi in via di sviluppo, la Cina ha favorito cose pratiche alla sua crescita economica e militare, mettendo in secondo piano cultura e creatività per favorire le discipline scientifico-tecnologiche. Il risultato è una media di 1 insegnante d’arte ogni 2000 scuole, di cui la maggior parte nemmeno a tempo pieno, non essendo un lavoro né redditizio né rispettato.
Certo, oltre al GaoKao c’è anche l’Yi Kao, l’esame per entrare nelle università d’arte. Ma la sua scelta è comunque poco incentivata dalla collettività, oltre al fatto che è anch’esso carente come preparazione. Basti vedere l’esame del 2019, in cui veniva semplicemente richiesto di riproporre le tre immagini che vedete qua sotto sotto forma di disegno, di dipinto e di sketch.
Come accadeva per la calligrafia, permane questa volontà di standardizzare e quindi uccidere il pensiero artistico. Ed infatti, secondo uno studio condotto proprio su gruppi di studenti universitari di facoltà artistiche in Cina, si evince una scarsa conoscenza dell’educazione ai principi artistici ed estetici, poco o mai coltivati negli anni precedenti.
Se avrai successo in ambito culturale, poi, è altamente probabile che diventerai artigiano anziché artista. Perché il rischio di avere persone con una coscienza critica, che non diano per scontato tutto quello che viene loro insegnato, rischierebbe di essere una minaccia per la stabilità della nazione. Direi che la chiave di tutto ciò la possiamo ritrovare proprio all’interno di uno dei quesiti posti nel GaoKao del 2010, che recitava così:
“Il presidente Xi Jinping ha affermato che, anche se l’arte è basata sull’immaginazione, dovrebbe comunque essere concreta. Ci possono essere centinaia di modi per creare arte, ma il modo migliore è di risalire alla vita quotidiana delle persone e creare qualcosa basato su di esso.”
Un pensiero che fomenta correnti come materialismo e iperrealismo e che va contro quelle forme d’arte più tipicamente astratte. Forme d’arte più inclini a stimolare il cervello in un modo che potrebbe finire per essere nocivo alla stabilità nazionale.
L’arte degli shanzhai
Chiaramente ciò non significa che in Cina non esista un desiderio di creatività. Desiderio che viene sfogato proprio nell'”ispirarsi” alle opere altrui e cambiarle secondo la propria visione. In ambito tecnologico, il mercato degli shanzhai è classificabile in tre categorie: la prima è quella dei cloni contraffatti, osteggiati un po’ da tutti (anche dai cinesi) in quanto sono una vera e propria truffa che si finge l’originale per ingannare l’acquirente. La seconda categoria è quella dei produttori minori. Penso ad esempio ad aziende come Elephone, Ulefone, UMIDIGI e così via, compagnie che gravitano in quel limbo di prodotti a volte “ispirati”, a volte originali. Ma la terza categoria è senza dubbio quella più controversa, dato che si pone a metà, cioè quei brand sconosciuti che realizzano pseudo-cloni ma cambiando qualcosina.
In tal merito, è interessante questo racconto della professoressa americana Lena Scheen, dove parla di quando un suo amico cinese la accompagnò a comprare un iPhone in un centro commerciale di Shanghai. Si imbatterono in un finto negozio Apple dove vendevano copie di iPhone brandizzati Pingguo, cioè la traduzione letterale cinese della parola Apple. La cosa curiosa è che, mentre a Lena venne da sorridere all’idea di ritrovarsi nel classico negozio cinese di cloni iPhone, per il suo amico cinese era una cosa normalissima, anzi. Dal suo punto di vista, non soltanto i Pingguo sono un iPhone meno costoso e quindi più democratico, ma avevano persino più funzioni (e qui il lato “artistico”), addirittura offendendosi nel vederlo definito come “clone”. Questo per capire la differenza di visione fra occidente e oriente.
Un altro aspetto socio/culturale che non può non essere preso in considerazione è il fatto che la Cina sia una nazione chiusa ma che, al contrario di una Corea del Nord, vanta moltissimo spazio geografico e altrettanta popolazione. Con quasi 1 miliardo e mezzo di abitanti, oggi il mercato cinese dimostra di sapersi sostenere da solo e di non necessitare così tanto dell’influsso estero. Anche per questo, in Cina esistono repliche di monumenti e città occidentali: d’altronde, perché farsi 8.000 km, 12 ore di aereo e spendere migliaia di dollari quando puoi fare mezz’ora di macchina da Hangzhou e visitare una replica della Torre Eiffel? Certo, non è la Cina la prima a farlo: ci sono circa 50 repliche della Torre Eiffel nel mondo, fra cui più di 10 negli Stati Uniti. E una si trova in quella Las Vegas dove possiamo trovare anche una replica delle Piramidi Egizie, del Gran Canale Veneziano, del David di Michelangelo e della Statua della Libertà. Certo è che la Cina è su un altro livello, basti vedere il quartier generale di Huawei: ospita 25.000 dipendenti e più di 100 edifici, ma non edifici qualsiasi. Huawei ha ricreato fedelmente 12 delle zone più caratteristiche dell’Europa, fra cui Parigi, Oxford, Lussemburgo, Budapest, ma anche Bologna e Verona.
Ma se nel caso di Huawei è qualcosa di più celebrativo ed estetico, ci sono zone in Cina create invece per puro scopo turistico. Oltre alla città di Tianducheng, pensata per ricreare l’esperienza parigina, se voleste visitare Londra e i suoi mercati, beh, c’è Thames Town, o in alternativa nella città di Suzhou c’è una copia del London Bridge. Preferite il Wyoming e le sue atmosfere boschive? Allora c’è Jackson Hole. Avete voglia di Olanda e mulini a vento? Beh, fate un salto a Gaoqiao. Per non parlare dei canali veneziani, replicati non soltanto a Las Vegas ma anche nella città di Dalian. Potrei andare avanti con tanti altri esempi, ma le motivazioni dietro a questo fenomeno possono essere due: incentivare il turismo interno e disincentivare i viaggi all’estero. E non soltanto per motivi economici, ma anche sociali: avere una città che replica Parigi dentro la Cina evita il rischio la popolazione entri in contatto con i media esteri, svelando i problemi di censura del proprio paese.
A differenza della nostra cultura, poi, in Cina copiare è anche una forma di rispetto e di merito: se riesco a copiare il meglio, vuol dire che sono bravo quanto lui. Basti vedere Xiaomi, un’azienda che sin dalla sua nascita venne definita “la Apple della Cina“. Lei Jun presentava gli eventi in maglia nera e jeans, lo stesso outfit di Steve Jobs, eventi che spesso si concludevano con il momento “one more thing” in stile Apple. Senza contare la somiglianza fra molti prodotti Xiaomi con quelli Apple: una somiglianza a volte palese, a volte camuffata dall’aggiunta di caratteristiche assenti sulla controparte americana. Copiare i migliori ma aggiungere qualcosa di proprio ad un prezzo minore, secondo la filosofia narrata finora.
La stessa strategia venne applicata da BYD, uno dei giganti automobilistici in Cina che nel 2005 lanciò la BYD F3, una copia della nipponica Toyota Corolla. Venne lanciata con il seguente slogan: “A metà del prezzo di una Toyota Corolla, puoi portarti a casa una Toyota Corolla“. Tanto bastò per farla diventare l’auto più venduta in Cina. E qua ci ricolleghiamo al motivo economico del perché la Cina copia. Sia per Xiaomi che BYD, ma potrei citare anche OPPO, vivo e tante altre, copiare è il modo migliore per crescere velocemente e mettersi in pari con le compagnie estere. Poi, una volta cresciute a sufficienza, iniziano a crearsi un catalogo sempre più ampio, fatto anche di prodotti originali e più avanzati della concorrenza estera, in modo da allontanarsi dall’immagine di copione con cui sono partite.
Chi è senza peccato…
Alla domanda “perché la Cina copia” si può rispondere in vario modo, quindi, ma voglio concludere con un’osservazione personale. Se oggi usare oggetti come telescopi e microscopi è cosa comune, è anche grazie al lavoro di due scienziati come Isaac Newton e Robert Hooke, fra cui si accese una rivalità proprio per la paternità di alcune di queste invenzioni. Newton cercò di fare pace con Hooke, in una serie di lettere a fine XVII secolo, ed è in una di queste lettere che venne citata la celebre frase: “Se ho visto più lontano, è stando sulle spalle dei giganti“. Quello che Newton intendeva è che il progresso non può non basarsi sulle scoperte fatte da altri, in un circolo virtuoso che favorisca l’umanità anziché l’individuo. Ma c’è anche chi, come Nietzsche scriveva in “Così parlò Zarathustra” nel capitolo “Della visione e dell’enigma“, sosteneva che salire sulle spalle dei giganti rischi di facilitare la vita a chi potrebbe non meritarselo, e che alla fine il vero progresso avvenga soltanto per mano dei giganti. A parer mio, questa doppia visione, ottimista e pessimista, calza a pennello per la Cina.
In un certo senso, si potrebbe dire che una volta il mondo stava sulle spalle della Cina, un paese a cui sono attribuite importanti invenzioni quali la carta e la stampa, ma anche la seta, la porcellana, la ghisa, la polvere da sparo, l’ombrello, il timone, la bussola, la carriola e l’aquilone, per citarne alcune. E poi, diciamocelo: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché si potrebbe parlare anche di come, alla loro nascita, gli Stati Uniti copiassero tecnologie e brevetti di un’Europa nel pieno della Rivoluzione Industriale. O di come oggi i social network americani siano ormai abituati a copiarsi funzioni a vicenda. Ma potremmo parlare anche del fatto che la Cina si stia dimostrando un passo avanti rispetto a USA ed Europa in settori come produzione tech di consumo, 5G, intelligenza artificiale, biomedicina, auto elettriche e costruzione di edifici e infrastrutture. Solitamente la storia tende a ripetersi, in un ciclo costante che cambia unicamente nei personaggi in gioco. Se prima il mondo stava sulle spalle della Cina e oggi la Cina sta sulle spalle del mondo, chissà, magari fra qualche secolo qua ci sarà un mio pronipote a raccontarvi di come la Cina venga copiata dal resto del mondo.
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