La necessità di integrare una batteria al litio all’interno di smartphone e tablet è, agli occhi del consumatore, una grande scocciatura. Questo componente è infatti responsabile di una parte rilevante del peso e dello spessore dei nostri dispositivi (3000 mAh in questi termini “costano” circa 50 grammi ed un paio di millimetri), è soggetto ad uno sgradito calo di capacità nel tempo a causa dell’usura e, infine, ci costringe al noioso rito della ricarica.
La sua presenza, d’altra parte, è fondamentale al funzionamento dei terminali in mobilità. Come abbiamo visto nello scorso articolo di questa rubrica, infatti, i nostri smartphone hanno costante bisogno di energia per funzionare e la cella agli ioni di litio sembra la candidata ideale per accumulare tale energia.
Dato che neanche in futuro potremo fare a meno di questo componente, dunque, i reparti di ricerca di aziende ed università si sono concentrati nel rendere sempre più comoda la sua ricarica ed invisibile la sua presenza. Oggi vedremo, quindi, quali tecnologie siano in fase di studio per aumentare leggerezza, durata nel tempo e capacità delle batterie, diminuendone, nello stesso tempo, ingombro e tempo di ricarica.
Si potrebbe pensare che sia una tecnologia adatta solo ai consumatori più pigri, ma è innegabile che la ricarica wireless segni un passo in avanti non indifferente nella direzione della comodità d’uso. La possibilità di ricaricare il proprio smartphone semplicemente poggiandolo su una superficie, senza doversi scomporre troppo alla ricerca del cavo (e del suo corretto verso di inserimento), è infatti appetibile per la maggior parte degli utenti.
NOTA: A tal proposito vi rimandiamo a due nostre recenti recensioni di caricatori wireless con powerbank integrate (Fone Salesman QiStone+ e RavPower Powerbank 5000mAh con ricarica Wireless).
L’assenza di parti meccaniche ed una potenziale larga compatibilità, poi, rende questa tecnologia ideale all’utilizzo in luoghi pubblici quali bar, stazioni ed aeroporti. Senza dimenticare, infine, le ovvie ripercussioni in termini di durata dei connettori USB (che vengono utilizzati più raramente) e di usura della batteria che, per sua natura, soffre meno le frequenti e lente cariche parziali tipiche di questa soluzione rispetto a quelle rapide e complete.
Sul mercato esistono già diversi standard di ricarica wireless che, inutile dirlo, si basano tutti sugli stessi principi fisici. Sia Qi che PMA (quelli attualmente più diffusi), infatti, utilizzano l’accoppiamento induttivo risonante per trasferire energia da un circuito LC (formato da una bobina ed un condensatore) alimentato dalla rete elettrica ad uno presente sul dispositivo da ricaricare.
Quando un dispositivo compatibile con una di queste tecnologie entra nel raggio di azione di una base di ricarica, dunque, disturba il debole campo elettromagnetico di controllo emesso da quest’ultima informandola della sua presenza. A questo punto i due dispositivi iniziano a “parlarsi” (con una tecnologia molto simile a NFC) e, qualora entrambi soddisfino lo stesso standard, la base inizierà ad emettere il campo risonante.
Probabilmente molti di voi avranno già sentito parlare di risonanza e ne avranno verificato (magari inconsciamente) gli effetti accordando una chitarra o andando sull’altalena. Consideriamo, per fare un esempio, due diapason identici. Se questi sono sufficientemente vicini e se ne percuote uno, infatti, si vedrà ben presto che anche l’altro inizierà a vibrare: l’energia del primo, attraverso le onde sonore, si è trasferita al secondo.
La stessa cosa accade con i due circuiti LC dei sistemi di ricarica wireless: la variazione di flusso del campo magnetico (generata dalla corrente oscillante presente nel primo circuito) crea, a sua volta, una corrente elettrica risonante nel secondo. L’energia trasmessa in questo modo, finalmente, può essere riconvertita in corrente continua ed utilizzata per la ricarica della batteria.
Affinché questo processo sia efficiente, tuttavia, le due bobine dei circuiti LC devono essere quanto più vicine è possibile (tipicamente dai 5 mm ai 40 mm). L’accoppiamento induttivo, infatti, è strettamente collegato all’intensità del campo elettromagnetico che, dato l’uso di frequenze molto basse (100–205 kHz per Qi) è approssimabile ad un’onda sferica che purtroppo decresce molto velocemente con la distanza.
Sistemi di ricarica wireless capaci di trasmettere energia a distanze più elevate sono in fase di studio ma, attualmente, non è prevedibile una possibile data di arrivo sul mercato. La necessità di utilizzare frequenze molto elevate (ordine delle microonde), infatti, si riflette in un’elevata direzionalità del campo emesso che costringerebbe le basi a conoscere istante per istante la posizione del dispositivo affinché la ricarica sia efficiente.
Ricordiamo, per concludere, che le tecnologie di ricarica wireless attualmente disponibili in commercio sono adatte solo alla trasmissione di basse potenze (5 Watt nel caso di Qi, ma versioni di potenza più elevate sono previste) ed hanno un’efficienza tipica nell’ordine del 75-80%, decisamente inferiore a quella ottenibile con la ricarica via cavo.
Se la possibilità di abbandonare cavi e connettori in favore della ricarica wireless può apparire utile, molto promettente è anche la ricerca di nuovi anodi, catodi ed elettroliti che possano garantire caratteristiche quasi fantascientifiche alle batterie agli ioni di litio del futuro.
Come abbiamo visto nell’articolo di domenica, infatti, questa tecnologia comprende un’enorme varietà di celle basate su materiali e processi chimici differenti, accomunate solo dal fatto che in tutte anodo e catodo si scambiano ioni di litio. Alcune di queste batterie potranno allora contare su un’incredibile densità energetica, altre saranno molto sicure ed altre ancora particolarmente stabili nel tempo.
Dato che una trattazione esauriente di tutte le possibili combinazioni è decisamente fuori dalla nostra portata, abbiamo deciso di limitarci a raccogliere in tabella i principali materiali in via di sperimentazione con le relative caratteristiche. Tutti i confronti e le percentuali, ovviamente, sono riferiti agli attuali standard di mercato.
Naturalmente la maggior parte delle tecnologie chimiche elencate sopra sono ancora in fase di sviluppo e, probabilmente, molte di loro non arriveranno mai in commercio. È molto interessante notare, in ogni caso, come esista un mondo davvero vasto di possibilità (spesso tra loro non compatibili) per migliorare le caratteristiche delle batterie.
Tra queste tecnologie le più promettenti per il settore mobile sono, molto probabilmente, quelle che puntano ad un aumento della densità energetica e della velocità di ricarica. Quelle che si focalizzano su sicurezza e vita operativa, infatti, saranno probabilmente scartate a causa della sempre più breve vita media dei dispositivi (qualcuno ha detto obsolescenza programmata?). Fare previsioni su quale tecnologia avrà la meglio, comunque, è attualmente un azzardo.
La via delle celle elettrochimiche, in ogni caso, non è l’unica percorribile per migliorare l’esperienza d’uso dei consumatori. Esistono diverse tecnologie di accumulo di energia che, pur non essendo attualmente utilizzabili in ambito mobile, un domani potrebbero dimostrarsi valide avversarie per le batterie agli ioni di litio.
La continua ricerca nel campo dei supercondensatori, ad esempio, ha portato negli ultimi anni a risultati eccezionali che ci lasciano ben sperare per il futuro. Se è vero che oggi questi componenti hanno una densità energetica che è tipicamente una frazione di quella ottenibile con le attuali batterie al litio, è anche vero che non soffrono l’usura (i cicli di ricarica si contano nell’ordine dei milioni), hanno una potenza specifica eccezionale e, sopratutto, possono essere caricati completamente in pochi secondi.
Un’altra tecnologia che permette l’accumulo efficiente di enormi quantità di energia, poi, è quella alla base della batteria a volano. In questo particolare tipo di batteria, infatti, le tipiche reazioni chimiche sono sostituite dalla presenza di un disco che, posto in rotazione, accumula energia in forma meccanica. Grazie all’uso di un vuoto spinto (che elimina l’attrito dell’aria) e della sospensione magnetica queste batterie hanno autoscarica trascurabile, mentre rappresentano lo stato dell’arte per densità di energia, efficienza e tempi di ricarica.
I problemi più grossi di questa tecnologia, come potete intuire, sono dovuti alla difficoltà di miniaturizzare un sistema tanto complesso. Difficilmente, dunque, vedremo mai batterie di questo tipo sui nostri smartphone, ma ci sembrava d’obbligo parlarvi della loro esistenza.
Dedichiamo poche righe, infine, alla possibilità che in futuro si utilizzino batterie a combustibile (le tanto famose fuel cell) o più esotici accumulatori magnetici. Le prime, infatti, sono dispositivi elettrochimici che hanno bisogno di un combustibile (di solito idrogeno) che deve essere contenuto in un serbatoio esterno alla cella stessa. Se anche si riuscisse a miniaturizzare cella e serbatoio, dunque, rimarrebbe il problema della ricarica che, a differenza delle batterie normali, si effettuerebbe comprando il combustibile. Una tecnologia, dunque, che segnerebbe un passo indietro nel senso della comodità per il consumatore.
I secondi, invece, sono semplicemente impossibili da utilizzare in mobilità. Gli accumulatori magnetici (SMES), infatti, per funzionare in maniera efficiente utilizzano una bobina superconduttrice che, allo stato attuale, può esistere solo se mantenuta a temperature incredibilmente basse. Fino a quando non esisteranno materiali superconduttori a temperatura ambiente (che potrebbero non essere mai scoperti), dunque, questa tecnologia non rappresenterà un’alternativa percorribile alle attuali batterie chimiche.
In questo articolo vi abbiamo mostrato quanto sia attiva la ricerca nell’ambito dell’accumulo di energia e, nello stesso tempo, vi abbiamo fatto intuire in che direzione si possono muovere le aziende per proporre terminali dall’autonomia crescente e dalla ricarica sempre più comoda.
Vi anticipiamo, per concludere, che domenica prossima ci addentreremo nel mondo delle fotocamere e cercheremo di dare una spiegazione alle tante sigle che compaiono quando si parla di questo componente.
Aggiornamento: ci è stato fatto notare che in questo articolo abbiamo trascurato una tecnologia antica ma promettente, quella delle batterie a decadimento radioattivo. Si tratta, in effetti, dell’unico tipo di cella primaria (non ricaricabile) in grado, grazie all’elevatissima densità energetica, di alimentare i nostri dispositivi per periodi di tempo davvero lunghi (ordine della decina di anni).
Alla base del funzionamento di questa cella c’è, come potete intuire dal nome, un elemento radioattivo che decadendo emette energia. Le versioni più miniaturizzabili di questa tecnologia, in particolare, producono corrente elettrica in maniera diretta utilizzando la continua emissione di particelle cariche (elettroni o nuclei di elio) da parte dell’elemento per generare una differenza di potenziale ai capi di giunzioni p-n di silicio.
Queste batterie, comunque, hanno il grosso svantaggio di avere (allo stato attuale) una densità di potenza davvero scarsa che, ovviamente, non è compatibile con l’uso nei nostri energivori smartphone. Una possibile adozione di massa di questa tecnologia, poi, è resa ancora più improbabile dagli ovvi problemi di smaltimento delle batterie esauste (che conterrebbero comunque materiali radioattivi) e dalla cattiva reputazione del termine “nucleare” presso il pubblico.