Se devo pensare a una delle più grandi dicotomie della storia recente, beh, non posso non pensare ai videogiochi in Cina. È il più grande mercato videoludico al mondo, con incassi oltre i 41 miliardi nel 2021. È la nazione con oltre 600 milioni di videogiocatori, e dove essere pro gamer è legalmente un lavoro. È la nazione di Tencent e NetEase, i due publisher più ricchi al mondo, con incassi da 10 miliardi nel 2021, più di tutti gli altri publisher messi assieme. È la nazione dei giochi più profittevoli al mondo, come PUBG Mobile, Arena of Valor e Genshin Impact. È la nazione dove si fabbrica ogni console che popola i nostri salotti, che siano Sony, Microsoft o Nintendo. Nonostante tutto ciò, da sempre la Cina porta avanti una lotta ai videogiochi che ancora oggi va avanti, perciò vi voglio spiegare come questa lotta sta cambiando anche il mondo dei videogiochi in occidente.
Il problema della Cina nei videogiochi
La genesi videoludica
Stati Uniti e Giappone: queste sono le nazioni a cui dobbiamo la nascita del mondo videoludico. Prima gli Stati Uniti del dopoguerra, soprattutto quell’Atari 2600 che vendette così tanto da paradossalmente provocare il crollo del mercato negli anni ‘80. Se oggi abbiamo solo 3 console, pensate: dal ‘76 al ‘82 ne vennero create qualcosa come 22 modelli, proprio per cercare di cavalcare il successo di Atari, in un mercato che però non aveva ancora la maturità e la stabilità odierne. E dopo gli Stati Uniti fu il turno del Giappone, che risollevò le sorti dell’intero settore per merito di Nintendo e SEGA con le rispettive Famicom e Master System.
Stati Uniti e Giappone, ancora oggi un asse portante per l’intera industria: e già qua la Cina storce il naso, dato che parliamo di due nazioni con cui storicamente non va d’accordo. Le prime console nacquero fra anni ’70 e ’80, epoca in cui dire dire che la Cina se la passava male sarebbe un eufemismo, visto che usciva dalla peggiore carestia nella storia dell’umanità. Dalle mani di Mao Zedong passò a quelle di un Deng Xiaoping più propenso ad aprire l’economia cinese al resto del mondo. Consideriamo, però, che negli anni ’80 l’85% della popolazione cinese viveva con solo 1$ al giorno e avere una TV era un lusso per molti, figuriamoci una console. Sulla spinta del governo Xiaoping, la Cina iniziò a uscire dalla povertà e verso fine anni ‘80 la TV entrò nelle case di due terzi della popolazione.
Tuttavia, la Cina era irraggiungibile per qualsiasi casa videoludica e ancora oggi è un mercato ostico per molti. Ma è importante non confondere l’ostruzionismo che la Cina fece fra anni ’90 e 2000 con quanto sta accadendo in questi anni sotto la guida di Xi Jinping.
Una sfida morale o geo-politica?
Se siete videogiocatori di vecchia data, Nintendo e SEGA sono due capisaldi della vostra infanzia. Se si sommano NES, Super Nintendo, Master System e Mega Drive si toccano le 150 milioni di console vendute. Probabilmente anche voi ne avete una o, se siete troppo giovani, sono sicuro che vostro padre o vostro zio ne hanno una in soffitta o in cantina.
Mentre da noi le console nipponiche prendevano piede, la Cina degli anni ‘90 ne disincentivava la vendita con dazi fino al 130%. Il motivo “ufficiale” è che la società cinese vedeva il videogioco come un deterioramento morale dei più giovani, coniando espressioni come “oppio digitale” o proverbi come “wan wu sang zhi”, che tradotto significa “l’eccessiva indulgenza nel giocare sminuisce le ambizioni”. Preoccupazioni che derivavano anche e soprattutto dalla One Child Policy, legge oggi abolita ma che un tempo obbligava le famiglie cinesi ad avere un solo figlio. Il timore dei genitori era che il figlio fallisse negli studi per colpa dei videogiochi, in una Cina dove il successo scolastico va raggiunto a tutti i costi, anche a costo di sacrificare qualsiasi tipo di distrazione ludica.
Verrebbe da dire, quindi, che la lotta ai videogiochi sia nata per una questione morale. Ma ciò è vero solo in parte, perché scavando più a fondo ci si accorge come la questione abbia toni più tipicamente economici e geopolitici, e come la Cina abbia usato la morale per approfittarsene.
Il mercato dei cloni
Non scopriamo certo oggi che la Cina non ha mai visto di buon occhio l’intrusione dello straniero. Ve ne ho parlato nel video-editoriale “Perché tutti gli smartphone vengono dalla Cina”: se la nazione è cresciuta così tanto negli anni ’90, è anche grazie alla furbizia nell’invitare aziende straniere, offrendo loro manodopera a basso costo e in cambio imparando (o nei peggiori dei casi rubando) quella conoscenza che poi gli sarebbe servita per rendersi indipendente e via via chiudere quei confini una volta aperti. Come diceva Isaac Newton, “Se ho visto più lontano, è stando sulle spalle dei giganti”.
E mentre la Cina tassava le console giapponesi, permetteva l’esistenza di realtà come Subor: esatto, quella che poi è diventata BBK e che, grazie alle ricchezze accumulate, ha potuto fondare aziende come OPPO, vivo, Realme e OnePlus: se foste curiosi, della storia di BBK ve ne parlo in questo video-editoriale. Negli anni ‘90, una Subor sull’orlo del fallimento fece la sua fortuna creando veri e propri cloni del Famicom a soli 20/30$. Fu talmente machiavellica da arrivare a creare un Frankenstein: uno pseudo-Commodore 64 che sembrasse più un PC che una console agli occhi dei genitori, venduto come “macchina per l’apprendimento”, con tanto dell’idolo delle folle cinesi Jackie Chan come testimonial. Peccato che sotto sotto fosse in grado di leggere tranquillamente le cartucce del Famicom.
Negli anni ‘90, Nintendo provò a entrare in Cina con l’aiuto dell’azienda Mani Toys di Hong Kong, provando a vendere Famicom e Super Famicom ma a prezzi troppo elevati. La più economica Subor si prese in poco tempo l’80% del mercato videoludico cinese, e in tutto ciò Nintendo non poté fare nulla. Vuoi per le claudicanti leggi cinesi sul copyright, vuoi perché non c’erano strumenti per individuare le console fake come adesso con i controlli online, vuoi perché il mercato nero dei cloni era troppo più conveniente per le tasche dei cinesi. Ulteriore beffa era il fatto che Nintendo si scontrasse con la competizione delle consoleSEGA… ma non quelle originali, quelle contraffatte.
Se la Cina credeva veramente che le console fossero oppio digitale, com’è possibile che un’azienda come Subor abbia venduto decine di milioni di console? Com’è possibile, poi, che la provincia del Fujian, altra zona economica speciale dove la Cina aveva aperto le porte al mondo, desse i natali a compagnie come Waixing. Un’azienda che prendeva le ROM dei giochi giapponesi, le traduceva e le schiaffava in una cartuccia per venderle in Cina. Titoli come Fire Emblem, Dragon Quest, Final Fantasy, Zelda, Pokémon: tutti giochi che poi finivano, guarda caso, dentro ai cloni Subor. Per un bambino cinese, Waixing era la manna dal cielo: giochi in cinese che altrimenti non sarebbero mai stati tradotti ufficialmente, nonché le primissime e famigerate cartucce da 100 giochi. Perfette per i genitori più progressisti, che con pochi dollari facevano felici i figli per mesi, che per quelli più testardi, perché il figlio li avrebbe potuti convincere a comprargli una sola cartuccia che in realtà nascondeva centinaia di ore di gioco. E furono proprio queste cartucce a danneggiare l’unico successo cinese della Nintendo degli anni ’90, che sempre in collaborazione con Mani Toys portò in Cina il celebre Game Boy vendendone milioni. Peccato che nessuno comprasse le costose cartucce ufficiali, preferendo loro le contraffazioni.
Ora, sarebbe ipocrita dire che la pirateria non sia stata un fenomeno di massa anche in occidente: chi di noi non ha avuto una PlayStation o una Xbox modificata? Ma col senno di poi, possiamo dire che Sony ne abbia parzialmente beneficiato, vendendo centinaia di milioni di console e rendendo PlayStation un brand enorme, acquisendo una popolarità tale da permetterle di essere diventata il colosso qual è oggi. Al contrario, dalla pirateria in Cina Nintendo non ha guadagnato nulla: le console vendute non erano le sue, i giochi venduti non erano i suoi e, come vedrete più avanti, anche quando ha potuto vendere ufficialmente in Cina non ha avuto il successo sperato.
Come internet ha cambiato tutto
Ma arrivano gli anni 2000 e, con essi, la morte del mercato dei cloni. Non fraintendetemi: tutt’oggi dalla Cina arrivano fior fior di pezzotti, ma non è più un mercato importante come lo era negli anni ’90. I motivi sono diversi, a partire dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel dicembre 2001. Da quel momento, la Cina dovette combattere la pirateria più seriamente: stando ai dati di ChinaLabs, la pirateria diminuì dal 68% nel 2005 al 28% nel 2012.
E poi, dove non arrivano le leggi, arriva la tecnologia. Gli anni 2000 furono gli anni dell’esplosione di internet, e la Cina era pronta: come affermava l’allora presidente Jiang Zemin, “internet avrebbe cambiato in modo significativo la Cina, sia nel quotidiano che economicamente, culturalmente e militarmente”. E qua arriviamo a un punto di svolta importante. La Cina si accorse che con il web il mercato del gaming sarebbe radicalmente cambiato, anche perché internet significava e-commerce, cioè la possibilità di comprare qualsiasi console da qualsiasi parte del mondo. Per impedirlo, nel 2000 il governo cinese istituì un ban sulle console, in particolare sulla loro costruzione nella nazione e soprattutto una forte limitazione dell’importazione dall’estero.
Ma internet cambiò tutto: in quegli anni in Cina scoppiava il business degli internet cafè, dove i giovani si ritrovavano per giocare online a titoli come StarCraft, Quake 2 e Command & Conquer. Perciò da un lato la Cina impediva l’ingresso alle console di Sony, Nintendo e Microsoft, dall’altro lasciava che i gamer si spostassero su PC. Il perché è presto detto: la Cina è uno dei paesi che più al mondo ha investito sulla diffusione di internet. Già nel 2000, oltre 17 milioni di cinesi avevano accesso alla rete e si contavano oltre 100.000 internet cafè solo nelle principali città. Questi luoghi erano la panacea per il gamer cinese: niente genitori che stressano, niente necessità di spendere per una costosa console. Peccato che le leggi cinesi prevedessero anche l’obbligo per gli internet cafè di registrare l’identità dei clienti, con il rischio di essere sgamati da genitori o insegnanti. Non tardarono a nascere internet cafè abusivi che purtroppo furono luogo di numerosi incidenti, tra incendi dovuti all’incuria e persino casi di omicidi (1, 2, 3, 4). Tutti eventi che finirono per sporcare la già compromessa immagine che la società cinese aveva del mondo videoludico.
I tentativi delle case videoludiche in Cina
1) Sony
Anche se in quegli anni il gaming era solo su PC, Sony, Microsoft e Nintendo provarono a entrare in Cina, con risultati non proprio entusiasmanti. PlayStation 1 non è mai esistita in Cina, mentre nel 2004 Sony provò a importare l’enorme successo di PlayStation 2, riuscendo però a proporla in sole 2 città sotto forma di “sistema computerizzato di intrattenimento”, per evitare lo stigma della parola “console”. Ma se la libreria globale contava oltre 1850 giochi, beh, in Cina ce n’erano solo 17: la maggior parte venne bloccata in quanto ritenuta “malsana”. A non aiutare era anche il prezzo di PS2, circa 240$ quando al mercato nero la si trovava a meno di 180$ e i giochi piratati per pochi spiccioli. Nel 2005 Sony chiuse i suoi uffici in Cina, PlayStation 3 venne cancellata e anche la celebre PSP non è mai arrivata.