Una brutta tegola si sta per abbattere sulla testa di chi usufruisce dei vantaggi dell’e-commerce, uno su tutti la possibilità di fare il reso gratuito. Negli ultimi mesi, colossi dello shopping online come Amazon, H&M, Zara, Abercrombie & Fitch e Anthropologie hanno deciso di porre fine allo sfruttamento di questo strumento, per lo scorno di chi solitamente acquista uno o più prodotti consci di poterlo rimandare indietro a cuor leggero qualora non fossero di suo gradimento. E se c’è chi da un lato esulta sotto il profilo della sostenibilità ecologica, c’è chi punta il dito verso queste piattaforme, accusandole di far venir meno uno se non il principale vantaggio di acquistare beni in rete.
I colossi dell’e-commerce dicono basta al reso gratuito: cosa cambierà in Italia
La scelta di Amazon e compagnia varia di cambiare le regole attorno al reso gratuito è quantomeno condivisibile: diminuire l’inquinamento ed evitare che troppi corrieri circolino per le strade per ritirare pacchetti di chi non è convinto del prodotto comperato online. L’obiettivo è quello di spingere i consumatori ad acquistare in maniera più cosciente, evitando comportamenti compulsivi permessi dalla rete protettiva del reso gratuito in maniera incondizionata.
La legge prevede che chi acquista online abbia diritto ad almeno 30 giorni di tempo per decidere se rendere il prodotto per qualsiasi motivo, anche il più futile; non sorprende, quindi, che ci sia chi ne ha abusato, acquistando oggetti già con l’idea di restituirli dopo poco. Un comportamento particolarmente nocivo nel mercato dell’abbigliamento, con persone che acquistano più colori e taglie dello stesso vestito per poi rimandare indietro quelli non graditi, o anche ordinando un vestito per un’occasione speciale per poi restituirlo subito dopo, a volte obbligando i negozi a svendere o addirittura gettare un vestito ormai usato.
I dati della National Retail Federation ci dicono che, solamente negli Stati Uniti, nel 2022 è stata restituito il 17% dei prodotti acquistati, per un valore complessivo di 816 miliardi di dollari; secondo quelli di Inmar Intelligence, i venditori online spendono circa 27$ per la gestione del reso su un bene venduto a 100$, e per il Wall Street Journal le compagnie che vendono online arrivano a perdere anche il 50% di margine per permettere ai clienti di poter rendere gli acquisti.
Una situazione economicamente, logisticamente ed ecologicamente poco sostenibile sul lungo periodo, ed ecco che in Regno Unito catene come Zara hanno deciso di agire: se l’indumento acquistato online non è di proprio gradimento, il reso costa 1,95£ se effettuato tramite punti di raccolta di terze parti (come edicole, uffici postali e così via). Stessa cosa per i siti di e-commerce di Asos e Uniqlo, anche se (per ora) la “tassa” non sussiste sui resi tramite i canali ufficiali, dove rimangono gratuiti. Ci sono poi i casi di Amazon, che negli Stati Uniti chiede 1$ per chi fa il reso tramite ufficio postale, H&M che chiede 5,99$ per la spedizione di reso ma anche J.Crew, JC Penney e Dillard’s , che chiedono rispettivamente 7,50$, 8$ e 9,98$ per restituire gli acquisti al mittente.
Lo stop al reso gratuito arriva anche in Italia
E qualcosa sta iniziando a cambiare anche in Italia, dove per esempio Zara sta consentendo di effettuare il reso gratuito solamente in negozio: in caso contrario, “il costo per ogni richiesta di restituzione è di 4,95€, che verrà detratto dal tuo rimborso”. Lo stesso varrà dal 24 gennaio con Abercrombie & Fitch (“reso solo tramite il nostro corriere preferito o in negozio”), H&M prevede il reso gratuito a patto che si sia membri H&M altrimenti si paga 2,99€, e il sito di Amazon afferma che “se restituisci l’articolo in conformità a quanto illustrato, avrai diritto di ottenere la restituzione del prezzo pagato per l’acquisto del prodotto restituito (escluse le spese di spedizione)“.