Pare sempre più evidente che eventi come la pandemia e il conflitto fra Russia e Ucraina abbiano accelerato la discussione attorno alle cosiddette terre rare. Prima c’è stato il lockdown, che da un lato ha fatto schizzare la domanda di elettronica ma dall’altro ha fatto crollare l’offerta a causa della chiusura delle fabbriche. Poi c’è stato lo scoppio del conflitto ucraino, che oltre alle complicazioni in materia energetica ha comportato difficoltà nel reperimento di materiali necessari per la produzione tech. È nato così il Critical Raw Materials Act, il piano per aumentare la produzione europea di materie prime critiche e ridurre la dipendenza dall’estero (in primis dalla Cina). E dopo la scoperto del più grande giacimento europeo, anche l’Italia si sta muovendo in questa direzione.
Ecco cosa sta facendo l’Italia per ridurre la dipendenza estera in fatto di terre rare
Un’Europa sostenibile entro il 2030: è questo l’ambizioso obiettivo che sta guidando le nuove attività che il continente sta mettendo in atto per raggiungerlo, riducendo del 55% delle emissioni di gas serra in vista della neutralità climatica entro il 2050. Sul tema si è espresso Adolfo Urso, ministro delle imprese e del Made in Italy, affermando che “sull’estrazione di terre rare l’Italia si sta muovendo in anticipo“, aggiungendo che “per la transizione green servono obiettivi sfidanti e quello delle materie prime è un settore strategico, non solo dal punto di vista industriale, ma anche per la nostra libertà e sovranità“. Come sottolinea Urso, “è stato pericoloso affidarci alle fonti fossili russe, e non possiamo fare lo stesso con la Cina su terre rare e minerali preziosi, anche vista la sua politica espansionistica con acquisizioni di giacimenti, specie in Africa“.
L’Europa ha così individuato 34 elementi chimici necessari per la produzione di batterie per auto elettriche, centrali energetiche ed impianti fotovoltaici. Fra questi ci sono anche le terre rare, un insieme composto da 17 elementi: cerio, disprosio, erbio, europio, gadolinio, itterbio, ittrio, lantanio, lutezio, neodimio, olmio, praseodimio, promezio, samario, scandio, terbio e tulio. Seppur molti nomi siano sconosciuti ai più, dietro ad essi si nasconde la produzione di oggetti comuni di ogni tipo: display, batterie, lampade, microfoni, speaker, magneti, motori elettrici, generatori, turbine, catalizzatori, fotocamere, fibre ottiche e tanto altro. Al contrario di quanto faccia immaginare il loro nome, le “terre rare” sono più comuni di quanto si possa pensare. Il perché sono “rare” dipende non dalla quantità ma dalla concentrazione, e questo significa che servono miniere molto grandi e una catena di produzione redditizia per sopperire agli alti costi d’estrazione e raffinazione. Per non parlare dell’inquinamento: per lavorare una tonnellata di terre rare vengono prodotte in media 2.000 tonnellate di rifiuti tossici.
Il governo italiano ha quindi disposto un aggiornamento della mappa mineraria italiana, ferma da oltre 30 anni, con le prime stime che parlano della presenza di 15 dei 34 elementi individuati. Per esempio il cobalto, individuato in alcune miniere del Punta Corna (Piemonte), oppure rame, cobalto e manganese nelle miniere di Monte Bianco (Valle d’Aosta) e Corchia (Emilia Romagna), titanio nel giacimento di Pianpaludo (Liguria), il litio nelle zone vulcaniche di Lazio e Campania, antimonio nel parco minerario delle Cetine (Toscana).
Non solo batterie, però, ma anche semiconduttori: sulla scia dell’European Chips Act, anche l’Italia si sta muovendo per rivitalizzare l’industria nostrana dei microchip, ma non con pochi dubbi.
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