[Tecnologia e Futuro] Come saranno i display di domani?

ZUK display trasparente
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Il secondo appuntamento settimanale della rubrica “Tecnologia e Futuro”, come vi avevamo anticipato, è dedicato interamente a quelle tecnologie emergenti (già presenti su un numero ristretto di modelli o vicine alla commercializzazione) o ancora in fase di sviluppo che segneranno probabilmente l’evoluzione dei nostri smartphone nell’arco dei prossimi anni.

Parleremo spesso, come potete immaginare, di idee troppo acerbe per l’adozione commerciale: solo alcune di queste riusciranno davvero ad imporsi sul mercato, mentre molte altre saranno abbandonate dai rispettivi team di sviluppo o, giunte in commercio, subiranno gli effetti della concorrenza.

Abbiamo scelto di trattare per prime quelle tecnologie già sviluppate ed in fase di adozione, lasciando per ultime quelle che avranno bisogno di più tempo prima di venire alla luce.

display flessibile
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Dopo avervi parlato di OGS, pannelli capacitivi, schermi LCD ed Amoled (argomenti affrontati nel nostro precedente articolo) oggi vi parleremo, quindi, di tutte le tecnologie che si preparano a sostituire (o ad affiancare) quelle attualmente utilizzate per la produzione dei display.

La risoluzione: una corsa infinita?

Come saranno i display di domani? Ci sembra d’obbligo iniziare con l’ormai famigerata corsa alla risoluzione, una gara tra produttori vecchia quanto il mercato mobile, che ha ritrovato l’attenzione del pubblico dopo la presentazione dei primi display Retina da parte di Apple.

Per ben capire in cosa consiste questa costante evoluzione tecnologica dobbiamo ricordare che i display, per visualizzare le immagini, utilizzano una matrice di microscopici quadratini in grado di riprodurre (visti da lontano) qualsiasi colore. Questi quadratini sono chiamati pixel e la risoluzione di uno schermo si indica normalmente dichiarando il numero di colonne ed il numero di righe della matrice. Dato che per misurare le dimensioni dei display si usa di solito il valore espresso in pollici della diagonale del pannello, poi, la densità dei pixel si esprime in PPI (pixel per pollice, a volte detti anche DPI).

dpi
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Nel 2008 il primo smartphone Android, giusto per dare qualche dato, aveva una risoluzione di 320 x 480 pixel e 180 PPI, mentre il primo Galaxy S due anni dopo era già arrivato a 800 x 480 pixel con 233 PPI. Oggi la risoluzione FullHD (1920 x 1080 pixel) è ormai comune tra i dispositivi di fascia media, i terminali 2K (2048 × 1080 pixel) sono da tempo in commercio ed anche i primi UHD 4K (3840 × 2160) sembrano sempre più vicini alla commercializzazione.

Quella verso risoluzioni sempre maggiori, dunque, sembra una corsa inarrestabile e commercialmente molto gradita da gran parte del “pubblico pagante”. Non abbiamo dubbi, dunque, sul fatto che in futuro vedremo terminali dotati di pannelli con risoluzione sempre più elevata, anche se gli effetti positivi sulla qualità dell’immagine diventeranno sempre più difficili da notare con il passare del tempo. 

dpi
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Un occhio umano in perfette condizioni, infatti, ha un’acutezza visiva di 50 CPD, che equivalgono alla capacità di distinguere una coppia di righe nere su sfondo bianco poste a 0.35 mm l’una dall’altra e ad un metro di distanza dall’osservatore. Questo vuol dire, facendo gli opportuni calcoli, che nella migliore delle ipotesi i limiti fisici dei nostri occhi non ci permettono di notare alcuna differenza tra uno schermo da circa 485 PPI posto a 30 cm di distanza dagli occhi ed un pannello di risoluzione più elevata.

Considerando che la distanza minima a cui un occhio giovane riesce a mettere a fuoco un oggetto è di circa 25 cm (e ripetendo i calcoli per questa distanza), poi, possiamo affermare che in nessun caso è ragionevole andare oltre i 580 PPI. Questo vuol dire che i 4K satureranno l’acutezza visiva dell’occhio umano per dispositivi sotto gli 8 pollici e saranno sicuramente sovradimensionati per l’uso su smartphone. Forse è il caso che la corsa alla risoluzione in ambito mobile inizi a rallentare e, da questo punto di vista, le batterie “ringrazieranno”…

Touch 3D, quando anche la pressione ha significato

Nello scorso articolo vi abbiamo accennato a come, di fatto, la tecnologia capacitiva non abbia attualmente rivali nel campo dei sensori touch. Molti di voi, d’altra parte, avranno sentito parlare dell’arrivo sul mercato dei primi dispositivi dotati di touch 3D (o 3D Touch), una tecnologia che sembra destinata a raccogliere molte attenzioni nei prossimi mesi.

touch 3d
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È bene chiarire da subito che questa innovazione non è destinata a sostituire la tecnologia capacitiva, quanto piuttosto ad affiancarla. La rilevazione della pressione, infatti, avviene tramite una matrice di estensimetri, sensori adatti a misurare le microdeformazioni dello schermo, ma inadeguati a rilevare con precisione la semplice posizione del dito sullo schermo.

Gli estensimetri utilizzati sui display, integrati in un layer posto sotto lo strato plastico di retroilluminazione dei cristalli liquidi, sono semiconduttori monocristallini fortemente drogati (che presentano impurità) che utilizzano il principio della piezoresistenza per misurare l’effetto di una pressione. Questi sensori, dunque, sono piccoli cristalli che modificano la propria resistività elettrica (e di conseguenza anche la loro resistenza) in base alle deformazioni subite.

3D touch
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L’utilizzo di questi elementi per misure precise, tuttavia, è complicato da una risposta non lineare agli stress e dalla elevata dipendenza della resistenza dalla temperatura. Il primo di questi problemi porta inesorabilmente ad una lieve perdita di precisione, mentre il secondo può essere risolto utilizzando una seconda matrice di sensori non soggetti a stress da utilizzare quale riferimento. La misura delle resistenze dei cristalli ed il confronto con i dati del sensore capacitivo, infine, permettono alla circuiteria di controllo di stabilire il livello di pressione applicata.

Display 3D: tante idee, tanti problemi…

L’idea di possedere un terminale con schermo 3D è indubbiamente tra le più accattivanti per la maggior parte dei consumatori, ma purtroppo si scontra con una realtà fatta di tecnologie ancora lontane dall’essere davvero pronte per il mercato. Lasceremo fuori da questa analisi i display 3D volumetrici (che proiettano direttamente nello spazio) che, per quanto interessanti, difficilmente arriveranno su un dispositivo mobile nei prossimi 20 anni (quanto mi piacerebbe essere smentito!) e ci riferiremo, quindi, ai display autostereoscopici (quelli che simulano la visione tridimensionale senza l’utilizzo di appositi occhiali) che, nonostante l’interesse del pubblico, non sono ancora riusciti a convincere i consumatori della loro bontà.

Chi ha avuto l’occasione di provare un dispositivo dotato di pannello 3D ricorderà infatti gli aspetti negativi di queste tecnologie, tra i quali dobbiamo citare la scarsa risoluzione, la necessità di trovarsi all’interno di uno spot predefinito per poter beneficiare della visione 3D e l’effetto “stancante” per la vista. Quest’ultimo aspetto, purtroppo, è dovuto direttamente al principio di funzionamento dei display autostereoscopici, che si basano sul’idea di proporre un’immagine diversa ad ogni occhio al fine di ingannare il cervello dando l’impressione della profondità.

schermi 3D
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Uno dei metodi più utilizzati ad oggi per ottenere questo effetto consiste nell’impedire, tramite una serie finissima di fenditure, che i pixel siano visibili da ogni angolazione. Sfruttando la parallasse dovuta alla distanza tra i nostri occhi, dunque, si può costruire una barriera fisica tale da consentire ad un occhio di vedere solo alcune colonne di pixel (quelle pari, ad esempio) lasciando che le rimanenti siano visibili solo dall’altro occhio.

L’effetto totale riproduce una buona sensazione tridimensionale, ma soffre di alcuni problemi irrisolti. L’angolo di osservazione dello schermo, ad esempio, è dato da scelte progettuali ed è di solito molto ristretto, mentre il frequente fenomeno del crosstalking (quando un occhio riceve anche parte dell’immagine destinata all’altro) porta spesso a cefalee che, quasi sempre, si manifestavano dopo un uso prolungato di questo tipo di display.

HR3D
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L’evoluzione naturale di questa tecnologia, comunque, ha risolto in parte i problemi della vecchia generazione di pannelli 3D e probabilmente riuscirà in futuro ad avere successo in campo mobile. Ci riferiamo a HR3D, che sovrappone a due strati di cristalli liquidi una barriera a parallasse adattiva per inviare ad ogni occhio solo l’immagine a lui destinata. Questo sistema, che fa largo uso di algoritmi specifici e, quindi, fa parte delle tecnologie stereoscopiche “compressive”, si adatta bene a risoluzioni più elevate, riduce il crosstalking e garantisce una buona visione 3D da più angolazioni.

L’altra grande famiglia di display autosteroscopici, poi, è quella che basa il suo funzionamento sull’uso di numerose microlenti poggiate direttamente sopra i pixel. Ancora una volta l’idea è quella di presentare un’immagine diversa ad ogni occhio, ma la necessità di utilizzare lenti di elevata qualità e la dimensione ridotta delle stesse si è finora riflessa in costi di adozione troppo elevati che hanno ostacolato l’adozione commerciale di questa tecnologia.

tensor display
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Sono attualmente in fase di sviluppo, infine, diverse altre tecnologie compressive basate sull’utilizzo di svariati principi di funzionamento (più pannelli LCD sovrapposti con retroilluminazione direzionale, campi di polarizzazione…) che, tuttavia, sono ancora in fase prototipale e difficilmente arriveranno sul mercato nei prossimi anni.

Quando 5 pollici non bastano: i picoproiettori

L’idea di integrare un picoproiettore in uno smartphone non è affatto nuova e le aziende del settore hanno già rilasciato diversi modelli dotati di questa caratteristica.

In un proiettore la luce emessa da una sorgente (per motivi di consumo in campo mobile si usano LED o Laser) viene manipolata per creare un fascio luminoso che, una volta giunto su una superficie, riproduca l’immagine desiderata. Attualmenete esistono diversi modi per manipolare il fascio luminoso, ma in campo mobile si utilizzano per lo più le tecnologie LCOS (Liquid Crystal On Silicon), DLP (Digital Light Processing) e  beam-steering.

LCOS
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La prima, in particolare, utilizza degli elementi ottici per dividere il fascio luminoso nei tre colori principali, che, giunti sui chip corrispondenti (composti da uno strato di cristalli liquidi sopra una superficie riflettente) vengono prima riflessi e poi riuniti per comporre l’immagine.

La seconda tecnologia, invece, basa il suo funzionamento sulla presenza di un chip DMD, una matrice di microspecchi controllati elettricamente. La luce emessa dalla sorgente passa da una ruota in movimento composta di filtri colorati che, in sequenza, lascia passare solo uno dei colori principali. Il DMD, a questo punto, opera in sincronia perfetta con la ruota per creare le immagini verdi, rosse e gialle ad altissima frequenza, che il nostro cervello sommerà in un’unica immagine finale colorata.

DLP

L’ultima tecnologia, infine, è quella che ultimamente ha riscosso più interesse per la caratteristica di non necessitare di alcuna messa a fuoco da parte dell’utente. In questo caso, infatti, la luce emessa da tre laser (uno per ogni colore principale) viene deflessa da un chip DMD per riprodurre, riga per riga, l’immagine.

laser projector

Oltre Amoled

A questo punto entriamo nel vivo delle tecnologie più sperimentali e lontane dal mercato, come quelle che sono destinate a sostituire gli attuali LCD ed i “nuovi” Amoled. La corsa verso display dal consumo sempre minore e dalla risoluzione sempre maggiore, infatti, spingerà un giorno le aziende del settore ad abbandonare queste due tecnologie (che per i prossimi anni regneranno sicuramente incontrastate) per adottare quei display che oggi sono solo prototipi.

Iniziamo quindi parlando di FED (Field Emission Display), gli eredi diretti dei vecchi CRT che promettono di essere seri concorrenti per gli Amoled. L’idea di base è quella di utilizzare dei subpixel formati da fosfori che, se colpiti da un elettrone, emettono radiazione luminosa in maniera del tutto simile a quanto accadeva nei vecchi televisori a tubo catodico. A differenza dei vecchi pannelli, tuttavia, qui ogni pixel avrà il proprio emettitore di elettroni, che sarà stampato con tecniche inkjet e, per operare, avrà bisogno di un’atmosfera a bassa pressione.

FED display
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Questa tecnologia è in parte l’evoluzione di un’altra tipologia di schermi mai arrivata in commercio, quella SED (Surface-conduction Electron-emitter Display) che, pur utilizzando la stessa idea dei fosfori, utilizzava un emettitore per ogni colonna di pixel. FED, comunque, potrà contare su un ottimo contrasto e su ottimi consumi per imporsi sul mercato.

Molto interessante, poi, è anche la tecnologia IMOD (conosciuta commercialmente anche come Mirasol) basata su delle microscopiche cavità che riflettono esclusivamente un determinato colore quando accese e che sono nere quando spente. Purtroppo attualmente esistono in commercio solo display ad un colore e l’adozione di massa sugli smartphone di questo pannello sarebbe comunque limitata dalla mancanza di retroilluminazione. Questi schermi, d’altra parte, sono ottimi per il loro consumo irrisorio e per l’ottima visibilità alla luce diretta del sole.

Quantum dots
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Dedichiamo un breve paragrafo, infine, ai cosiddetti Quantum Dots, nome dietro al quale si nascondono una varietà di nuove tecnologie diverse tra loro che basano il loro funzionamento sull’utilizzo di principi quantistici. Attualmente, infatti, sono in fase di sviluppo i primi pannelli a quantum dot retroilluminati, in cui semplicisticamente lo strato di cristalli liquidi è sostituito da materiali nanoscopici (in realtà i QD assorbono la luce di una determinata frequenza per riemetterla con un altro colore, consentendo un aumento di efficienza), mentre i pannelli senza retroilluminazione sono ancora lontani dall’essere commerciabili (in questo caso i QD si comporterebbero in maniera simile ad un LED). Queste tecnologie, quando arriveranno a maturità, potranno comunque contare su tutti i vantaggi dei pannelli Amoled, con consumi ancora più ridotti e colori più precisi.

VRD

Un ultimo sostituto dei display, infine, potrebbe essere la mancanza di display. Ci riferiamo ai sistemi VRD (Virtual retinal display) in cui lo schermo reale è sostituito dalla proiezione, direttamente sulla retina, dell’immagine da visualizzare. La tecnologia si basa fondamentalmente sull’uso di uno scanner, che misura la posizione della retina e della pupilla, e di un proiettore laser che riproduca l’immagine vera e propria. Purtroppo i sistemi VRD sono spesso osteggiati a causa della loro intrinseca pericolosità (vorreste davvero avere un laser puntato dentro gli occhi?), ma non è scontato che in futuro esistano smartphone dotati di questa tecnologia.

Questa era l’ultima delle tecnologie che, più probabilmente, segneranno in futuro l’evoluzione dei nostri display.

Vi aspettiamo la prossima settimana con l’articolo dedicato ai materiali costruttivi! Nel frattempo fateci sapere, utilizzando il box commenti in basso, cosa ne pensate di questa nuova rubrica!